Essenzialmente Warhol aveva notato come le dinamiche sociali andavano concentrandosi sempre più verso l’importanza data alla fama e sempre meno ai contenuti di una persona. Il mondo dello starsystem era per lui la Mecca del mondo nuovo, quello che dopo la seconda guerra mondiale si stava avviando verso un positivismo ed un ottimismo ritrovati. Tutto ciò che fece nella sua vita fu per entrare a far parte di questo sistema e governarne le tendenze. Il suo regno era la Factory: il luogo dove lui lavorava e si facevano feste di alta società praticamente 24 ore su 24. Di fatto riuscì nel suo intento, basti vedere il caso dei Velvet Underground, band essenzialmente poco talentata che diventò (e lo è tuttora) ultrafamosa perché suonava alla sua Factory. Non fraintendetemi, io adoro i Velvet Underground, ma bisogna dire che sia Nico che Lou Reed non è che strabordassero di doti canore.
Come accennavo, il lavoro di pubblicitario è un elemento chiave di Warhol, essendo questa una professione che opera prevalentemente sui simboli e sul potere che essi hanno sull’immaginario delle persone. È così che Warhol giunge alle riflessioni che in seguito farà rispetto ai simbolismi, e tutti i suoi modi di riproporli rielaborandoli. Ci troviamo così di fronte alle riproduzioni rielaborate di famosissimi prodotti (Coca-Cola, zuppa Campbells’, sapone Brillo…) o di famosissime persone ( Marilyn Monroe, Mao Zedong, Che Guevara… ). Marilyn, del 1964, è forse la più interessante . In quest’opera si cela una riflessione sull’apparenza e sul valore del simbolo profondissima. Forse non tutti sanno che il vero nome di Marilyn è Norma Jeane Mortenson, che non era veramente bionda e che il suo neo era falso. Ma se togliamo questi tre elementi caratteristici chi è che rimane, chi stiamo veramente osservando? È ancora la stessa Marilyn o è una qualsiasi ragazzotta del sud dai capelli rossi e gli occhi azzurri? Emerge quindi la questione del simbolo, se volgiamo quasi del logo, che in una società votata all’apparenza assume molto più valore della vera essenza.
Tutta questa facilità del mondo “che conta” fece entrare Warhol in una nuova fase, in cui si estraniò dal mondo reale, come se lo guardasse attraverso un televisore. Ed ecco che la sua poetica raggiunge la maturità. La sua produzione si concentra su questa realtà che è popular (POP) e tenta di rappresentarla nel modo più freddo possibile. Il suo sforzo è rappresentare la sua arte come se fosse lui stesso una macchina, senza quegli aspetti interpretativi che sono inevitabili per un pittore, uno scultore o un disegnatore. Da qui la tecnica serigrafica, che gli consente di riprodurre in serie, e quindi la possibilità di commercializzarla. Quale macchina poi rappresenta la realtà in maniera più fredda e impersonale della macchina da presa? Ecco allora che si cimenta in opere sperimentali, in cui filma scene di vita reale per poi riprodurle al rallentatore. È un’occasione per soffermarsi e ragionare su cosa questi soggetti rappresentino. Una volta è una ripresa di 8 ore dell’Empire State Building (Empire, 1964), una volta un bacio tra due sconosciuti (Kiss, 1963), una volta una fellatio (Blow Job, 1964). Sempre e comunque immagini iconiche, simboliche, facilmente riconducibili all’esperienza quotidiana di chiunque, riproposte in un ambiente artistico da jet-set, nel mondo dei famosi.
Tanto lucida fu la sua interpretazione dei simbolismi e del loro potere sulla società di massa che alla fine lui stesso si rese simbolo, andando a diventare parte di quel mondo che aveva tanto ammirato. La fotografia del suo volto con la parrucca è ormai stampata indelebilmente nell’immaginario collettivo. In un certo senso Warhol è stato l’inventore del selfie.
“Nel futuro tutti saranno famosi per 15 minuti”.
“La cosa più bella di Firenze è il McDonald’s”.
a cura di Filippo Bottini