I nuovi schiavi dell’agricoltura

In estate come ogni anno in Italia arrivano milioni di turisti stranieri che desiderano visitare le nostra città d’arte, i paesaggi naturali, le spiagge paradisiache e passare qualche momento di benessere e relax. Nonostante la crisi, il flusso del turismo degli stranieri non è diminuito, al contrario rappresenta la linfa vitale per la nostra economia, soffocata da un calo costante dei consumi interni. Ma l’Italia non è solo questo: il bel paese, così come siamo conosciuti in tutto il mondo per le bellezze della nostra terra, ogni estate è meta di un turismo diverso, squallido e deplorevole, che vede arrivare migliaia di immigrati in cerca di lavoro con la speranza di rifarsi una vita migliore. Molti arrivano con mezzi di fortuna dall’est Europa, dall’India o dall’Africa illudendosi di trovare ciò che agli italiani è stato offerto dall’America nel primo Novecento, cioè una terra promessa, piena di opportunità e di lavoro. Essi arrivano con quella fiducia e quella speranza di chi desidera un miglioramento delle proprie condizioni di vita, per sé e per i familiari che lascia in patria non senza sofferenza, non abbandonando mai quella dignità personale che li porta a separarsi da ciò che amano di più con la precisa intenzione di rincasare soddisfatti per la ‘missione riuscita’ di aver sostenuto una famiglia con il loro sacrificio.

Kahled è un pakistano che vive in provincia di Bari e, come molti suoi concittadini asiatici, tutte le mattine si sveglia all’alba, viene caricato su un furgone da Maxim, il caporale di riferimento, e portato nei campi delle aziende italiane per raccogliere o seminare, a seconda degli ordini. La sua situazione non è nemmeno delle peggiori se confrontata con quelle in cui versano alcuni suoi colleghi, costretti a pagare delle tasse giornaliere se vogliono bere e mangiare.

Gli immigrati in cerca di lavoro raggiungono l’Italia con dei barconi in modo clandestino. Quelli che vengono da più lontano, come i pakistani, arrivano in aereo muniti di un ‘irregolare’ permesso di soggiorno temporaneo; in entrambi i casi essi si indebitano, rischiando ogni bene che hanno, compresa la loro stessa vita, investendo tutto in un viaggio della speranza e della salvezza che non hanno nemmeno la certezza di portare a termine, e si mettono nelle mani di caporali e faccendieri che fanno capo a loro volta ad organizzazioni che trafficano esseri umani. In questa catena di sfruttamento, basata sulla speculazione di vite umane, nascono i nuovi schiavi dell’agricoltura, pagati appena tre euro all’ora, in condizioni igienico–sanitarie vergognose, e vivono in una realtà disumana: vengono picchiati, maltrattati, ricattati e costretti a pagare affitti altissimi a fronte di un misero stipendio. Ci sono alcuni braccianti che, scaduto il falso permesso di soggiorno della durata dai 3 ai 6 mesi procuratogli dal caporale di riferimento, sono costretti a lavorare gratis per i loro ‘padroni’ – così chiamano i loro sfruttatori – perché non hanno i soldi sufficienti per pagarsi il prolungamento di tale permesso, che in realtà è gratuito. Ora sono schiavi in piena regola. Molti di loro però non si lamentano, né si ribellano perché non hanno alternative. Devono e vogliono lavorare e se queste sono le condizioni per farlo le accettano, a patto che a fine mese vedano i risultati in una misera busta paga. Quando gli si chiede se non sia meglio tornare in patria piuttosto che sopportare in silenzio questa nuova forma di schiavismo, tutti rispondono che non possono: sia perché non hanno i soldi per tornare, sia per il fatto che sarebbe un disonore tornare in patria a mani vuote dopo che la famiglia si è indebitata per loro.

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Il business delle agromafie, secondo le stime della Direzione Nazionale Antimafia, è di 12,5 miliardi l’anno. È presente in tutta Italia seppur in percentuali diverse: infatti al sud 9 lavoratori stranieri su 10 impiegati nella raccolta e nella semina in aziende italiane sono sprovvisti di un regolare contratto di lavoro, al centro sono il 50 per cento, al nord il 30. È stato un fenomeno più volte denunciato, ma evidentemente senza la necessaria forza, perché dopo lo sdegno iniziale tutto resta immutato; come se lo spegnersi dei riflettori mettesse magicamente fine anche a questo supplizio sociale. Fermare uno sfruttamento del genere non è semplice sia dal punto di vista tecnico perché sarebbe necessaria una totale revisione organizzativa del sistema contrattuale italiano, ma soprattutto perchè bisognerebbe cambiare quella tipica mentalità italiana basata sull’approssimazione e sull’aggiramento delle norme.

Il sole sta tramontando, Kahled torna a casa in sella alla sua bicicletta e con lo zaino sulle spalle. Starà forse pensando a sua moglie, ai sacrifici che sta facendo per garantirle una vita migliore temendo di non riuscire a mantenere le aspettative. Ma di una cosa è sicuro: qui non la può e non la vuole portare, non avrebbe di che sfamarla.

Ottavia Quartieri

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