C’era l’autobus fermo in coda davanti a lui, e c’era il suo odore tutto attorno – quell’odore così urbano, così penetrante, che sa di vecchio e forse non proprio, che riempiva le sue narici mentre quello se ne partiva nel traffico vibrando come la cassa armonica di un pachiderma.
C’erano le stagioni in divenire a circondare la sua figura esile. Le linee dritte e bianche tracciate sull’asfalto – in colonna le auto come tanti inutili suppellettili.
Annotava pensieri nella mente che forse sarebbero sfuggiti ancor prima di potersi depositare su un foglio di carta. E ancora l’odore dei gas di scarico, la puzza di benzina, il rombo di una moto lanciata contro il muro del suono.
Passare col rosso è un’arte. Un mix di attenzione, precisione, rischio, esuberanza, la piccola hybris concessa agli abitanti della metropoli. Rallentare ma non fermarsi – ‘altrimenti che lo faccio a fare?’, pensava tra un respiro e l’altro. Ma nemmeno troppo in fretta, chè la sicurezza è un nemico infido. Si annida nella stessa nicchia da cui proviene la notte.
E tornando a casa e sperando che i filtri del suo apparato respiratorio fossero all’altezza del famigerato particolato milanese, ben due volte dovette aprire la porta di casa per riuscire a introdursi di soppiatto in quell’ambiente ostile.
Le pareti scure e quasi indistinguibili, lieve nel suo chiarore il foro che conduce alle altre stanze – altresì detto corridoio, ma quello è il nome che prende di giorno, perché di notte le cose hanno altre forme e altri nomi. Via le scarpe e si imbocca l’apertura nel buio. Avrebbe condotto lì dove si aspettava? A tentoni trovò l’interruttore della luce, ma decise di lasciarlo in quella posizione. Gli bastava sapere che fosse lì.
Riconobbe il gancio e sfilò il cappotto e ve lo depositò sopra. Sbuffando senza emettere suono alcuno raggiunse la stanza – notò immediatamente la debole luce, segno inequivocabile di una tapparella alzata, di una stanza quindi ancora vuota.
Sua sorella ancora non era rincasata e l’orologio puntava la sua ora con inflessibile ragionevolezza.
‘E’ sempre un piacere rientrare per primi’, si disse. Pensò per un istante alle sorelle che rincasavano tardi, o più tardi almeno, e si scoprì a sorridere senza motivo.
Pochi istanti ed era in bagno. Coltivava la piccola abitudine di perdere gran parte del tempo dovuto al sonno in quella stanza angusta, pensata per spostamenti rapidi e soste fugaci – proprio come quella città, che scorreva senza sosta sotto i suoi piedi mentre lui, ignaro, cercava di rallentare il passo.
La sua piccola rivincita consisteva quindi nel soffermarsi là dove non era previsto soffermarsi.
Dopo qualche minuto venne interrotto. La serratura girava di nuovo, la prima e poi la seconda volta, ed ecco aprirsi la porta. Sua sorella rientrava, in fondo il distacco si poteva dire contenuto.
Lei andò in camera facendosi luce con il cellulare. Lui guardò l’ora sul suo. Trovò a tentoni, sempre nel buio appena schiarito dalla debole luce della città fuori dalla finestrella, la maniglia dello sciacquone e girò, finché non fu soddisfatto del risultato.
Sua sorella entrò nel bagno salutando a bassa voce. Pochi rumori dilazionati nel tempo. Lui si lavò i denti con una certa frenesia, come avesse fretta di liberarsi di quell’incombenza serale. Lei si preparò infilando il pigiama e levandosi il trucco. Qualche parola scambiata, l’essenziale, com’è andata la serata, che hai fatto, chi c’era, sei sbronza.
E per un momento nella sua mente rimase impresso il ricordo dell’infanzia. La mattina, ogni mattina, sveglia assieme, fratello e sorella, prepararsi assieme nel bagno, alternandosi nei vari punti della stanza come in un carosello d’altri tempi, incastrando ritmi e orari, qualche chiacchiera senza perdersi in eccessi. O ancora le mattine dei weekend passate a parlare e inventare storie e poi riderci su, cose che nessuno può capire, forse nemmeno loro due ormai.
C’era aria di pioggia quand’era rientrato a casa. Pensava di poterla riconoscere e individuare nel vento, come si fa in montagna, che invidia. Gli passò questo per la mente, ma solo un istante, poi sputò il dentifricio nel lavandino, si asciugò e riempì qualche bicchiere d’acqua gelida, gelida al contatto coi denti e con la gola che sapevano di menta ghiacciata.
L’infanzia ormai passata e quelle mattine trascorse tra lavandino e vasca. Abiti distesi sul bordo di questa. Tracce di dentifricio e capelli in quello. Quanti anni fossero passati era facile da dire; bastava contare. Eppure quanti anni fossero passati, chi lo sa. Forse troppi. Forse così tanti che è già quasi ora che si ripetano.
E poi di filato a letto e sotto le coperte, illuminati dalla luce di uno schermo a cristalli liquidi prima di chiudere gli occhi e chiedere che ancora una volta, ancora una notte, i demoni ci lascino in pace, chè già ci tormentano abbastanza quand’è giorno. E che lascino riaffiorare solo qualche ricordo isolato.
un racconto di Andrea Piazza