“Passa le giornate a fior d’acqua… una tortura!” così pensavo mentre osservavo la piccola tartaruga nuova di mia sorella. “Che idea del cavolo è stata prendergliela!”. Aveva pianto un giorno intero, ininterrottamente, sapendo che l’arma della disperazione avrebbe funzionato su suo padre. Da quando mia mamma l’aveva fatto venire a vivere a casa nostra, aveva smesso di collegare il cervello alla vita e volteggiava per la casa con quelle sue gonne lunghe e colorate, accedendo incensi e canticchiando canzoni arabeggianti. E poi Giuditta otteneva sempre quello che voleva. Suo padre la riempiva di giocattoli, regalini, cianfrusaglie che puntualmente finivano, chissà per quale varco spazio-temporale, nella mia stanza, e io come un’ombra li raccoglievo e li portavo nella stanza dei rifiuti a piano terra.
Adesso c’era la tartaruga. Quell’essere inutile, indeciso se vivere nell’acqua o sulla terra. Erano passati tre o quattro giorni da quando Giuditta l’aveva ottenuta a furia di piagnistei e già era stata dimenticata galleggiante nella mia stanza, sulla scrivania di fronte al letto. E mi guardava insistentemente ogni volta che entravo, che uscivo, che mi cambiavo, che mi sdraiavo che me ne stavo sul letto a guardarmi un film. Sembrerà assurdo, ma mi irritava particolarmente! Percepivo la sua esistenza anche senza guardare quella sua vaschetta sempre più sporca. Non ho mai voluto avere altri esseri viventi nella mia stanza. Avevo rifiutato perfino la presenza della mia “adorabile” sorellastra bionda, figuriamoci una tartaruga, per di più inopportuna, come lei.
“Quanto dev’esser bello passare le giornate su due zampe come lui! E due zampe lunghe e muscolose come quelle poi!” così pensavo tutte le volte che, dopo un’attesa estenuante apriva la porta della stanza con un colpo brusco, e si spogliava velocemente, mostrandomi il suo corpo, tanto diverso dal mio ma così…meraviglioso! Poi si infilava i pantaloni della tuta, sembrava accorgersi improvvisamente dei miei occhi rugosi su di lui e, farfugliando qualcosa, si avvicinava spostandomi leggermente sulla scrivania. Sperava che smettessi di guardarlo forse? Beh, questo non sarebbe mai accaduto! Era davvero troppo bello. Nel negozio, quando ero insieme alle altre testarde e cocciute tartarughe, non mi si offriva mai uno spettacolo del genere. Il massimo della bellezza umana che potevo scorgere da quella vasca davvero troppo piccola per tutte noi era il sedere di qualche esemplare femminile umano fasciato da gonne strette e corte. Chissà perché alla vasca delle tartarughe voltavano sempre tutti il sedere! E poi, per quanto belli alcuni di questi potessero essere, non mi sentivo mai abbastanza libera di lasciarmi andare a strani e piacevoli pensieri, perché circondata da altre, avevo come paura che si potessero tutte accorgere dei miei desideri.
Desideravo liberamene; liberarmi di quel suo sguardo indagatore e penetrante. Avrei dovuto buttarla via? Abbandonarla nella stanza della pattumiera a piano terra? Tanto ormai Giuditta non se ne ricordava nemmeno più. Mia madre accendeva incensi e il mio patrigno entrava in casa solo alla sera, con qualche pacchettino per sua figlia. Io ero un’ombra, e nessuno, nessuno intorno a me si sarebbe accorto della sua mancanza, così come della mia. In effetti io e quell’esserino intorpidito e curioso avevamo qualcosa in comune. Un pomeriggio entrai nella mia stanza, con la stessa foga con cui si scappa da qualcosa che fa veramente paura, richiudendomi con violenza e decisione la porta alle spalle, lasciando il mondo oltre. Lei era lì, che mi aspettava, osservandomi con la testolina in tensione allungata oltre il filo dell’acqua. Lo spostamento d’aria della porta aveva fatto increspare leggerissimamente la superficie acquosa intorno al suo scoglio sicuro su cui passava il tempo, guardandomi. Improvvisamente mi sentii con lei in perfetta sintonia.
“Che sintonia che c’è tra noi! Davvero non se ne accorge? Siamo fatti l’uno per l’altra, non vorrei mai andarmene da questa meravigliosa stanza!”. Quel pomeriggio l’avevo aspettato con più ansia del solito. Ormai avevo imparato a distinguere il suono delle sue chiavi nella porta, e sentivo i suoi passi dirigersi verso la stanza, verso di me come delle crescenti vibrazioni. L’acqua intorno a me cominciava inavvertitamente a dondolare, sotto la spinta di morbide e piacevoli oscillazioni del pavimento. Senza rendermene conto allungavo la testa oltre il liquido, oltre il limite della vasca e finalmente lo vedevo precipitarsi dentro. Erano inspiegabili le sensazioni che si risvegliano in me. Ogni angolino della mia pelle ruvida diventava inconsapevolmente sensibile e avvertivo tutto, tutto. Quel pomeriggio ero piena di trepidazione, perché sentivo dentro di me un desiderio di lui che non ero più capace di soffocare. Entrò e mi guardò. Cominciai a muovermi, avanti e indietro sullo scoglio. Il mio corpo si strofinava lentamente sulla superficie zigrinata dello scoglio di plastica sotto di me. Non avrei mai potuto fermarmi. Il mio sguardo era puntato fisso su di lui che guardava fisso me. Continuavo a muovermi e mi abbandonavo al piacere umido che quel dondolio mi provocava.
Mi stava provocando forse? Perché mi osservava in quel modo? Cosa voleva da me? Mi avvicinai alla scrivania e il mio viso copriva di un velo scuro la sua vaschetta. Si stava muovendo. Impercettibilmente dondolava, su e giù, su quel finto scoglio! Provai un moto di affetto profondo e fulmineo per lei. Mi venne voglia di accarezzarla.
“Mi vuole accarezzare? Se adesso lo fa è davvero la fine!”. Vedevo il suo grosso dito allungarsi lentamente su di me, e mi mancava così poco… così poco! Presi a muovermi più veloce, anche se avrei voluto che lui non se ne accorgesse… o forse sì? L’acqua mi solleticava il ventre, le zampe stavano per scivolare, una vibrazione sottile cominciò a scorrermi per tutto il corpo, sotto al guscio… il suo tocco fu il culmine.
Da quel giorno fummo inseparabili.