À la française

Un volto inquadrato da un berretto, di quelli à la française, messo su con noncuranza, un volto stanco, affaticato dalla giornata: camminava con passo lento, ma deciso, una borsa a tracolla sul cappotto liso. Mi veniva incontro, con gli zigomi all’erta, guardandomi fisso, un po’ assente; aveva gli occhi arrossati, come iniettati di notti su notti passate a pensare, incapace di dormire. Ci faceva da sottofondo una chiesa con un ingresso a volta, sostenuto da due piccole colonne; sulla sua concavità era dipinto un cielo stellato; era così piccola, così concentrata, anche il rosone era così, piccolo, senza pretese, come tutto l’edificio del resto.

Dopo poche falcate mi era davanti, con tutto il suo respiro che andava condensandosi in un buio precoce. Aveva in tasca un pacchetto di Winston che dava l’impressione di cadere, eppure credevo avesse smesso di fumare tanto tempo fa.
Era per il nervoso, così mi aveva detto, soprattutto dopo quello che era successo appena un anno fa: sua moglie era morta per una tubercolosi in stato avanzato; l’ho tenuta in cura per un anno, ma era solo per dare qualche falsa speranza a quell’uomo. L’ho fatto affinché avesse un leggero sorriso stampato in volto (quello stesso volto emaciato di un anno dopo), un sorriso dettatogli proprio dalla speranza che sopravvivesse – sì, sono stato un irresponsabile… ma come biasimarmi: era un mio amico in fondo.

Io sapevo che non avrebbe avuto tanto tempo davanti: era ridotta ad una larva. Difficile a dirsi quanto fosse complessa la rete di pensieri che si dipanava quando cercavo di dirgli qualcosa. Sedeva su quella sedia bianca, anonima, accanto a quel letto d’ospedale; le teneva la mano. Era commovente; ricordo ancora il giorno in cui gli ho detto che non ce l’avrebbe fatta: ebbe il volto rigato d’improvviso da un lampo di morte. Gliel’avevo letto negli occhi: le pupille gli si erano dilatate, poi ristrette, il fiato si era scomposto in conati di boccheggi, come se cercasse aria, come se volesse divorarla.
Gli avevo raccontato menzogne troppo a lungo, che se la sarebbe cavata, che le cure datele erano le più avanzate, e altre varianti di questa ridda, sapendo che erano solo una titubanza, un palliativo: con una tubercolosi in uno stato così avanzato non ci sono speranze. Non c’era più niente da fare, ed era troppo evidente per poterglielo nascondere ancora: ormai non riusciva nemmeno a camminare. E già da mesi non riusciva a parlare; i grumi di sangue le ostruivano il respiro. Gli concedemmo di passare tutte le notti con lei. Quando passavo vedevo che stavano lì, in silenzio, non usciva nemmeno un fiato dalle loro labbra: erano concentrati in uno sguardo intenso. Si dicevano addio.

Continuò così per qualche settimana. All’improvviso, una mattina lei non si svegliò più. Lui aveva dormito accanto a lei, come ogni notte: aveva la testa sul suo grembo, le teneva la mano, con forza. Quando andammo a svegliarli, lei non rispose alle ripetute scosse del marito, né ai suoi singhiozzi, né alle sue lacrime. Pianse a lungo quel giorno. Il suo funerale arrivò come un lampo agli occhi di quel pover’uomo ed io ero tra gli invitati.

Ho tentato a lungo di consolare il suo dolore: avevamo fatto tutto il possibile. Sapevo di avergli detto delle menzogne all’inizio… Il decorso della sua malattia era evidentemente compromesso: era troppo tardi sin dall’inizio.
Ha voluto che fosse costruito un piccolo mausoleo per lei e che non fosse interrata, ma incubata in una teca; voleva anche che fosse conservata per com’era, nel suo pallore cadaverico.
Passava almeno due ore di ogni sua giornata in quel mausoleo, ma non le parlava, come molti fanno; si limitava a stare su una sedia bruna, in legno, anonima: si sedeva e la guardava, ogni giorno, per due ore.
Ed io non sapevo come chiederglielo: ho iniziato col salutarlo. Ricambiava con un cenno appena. Mi preoccupavo per lui: gli ho consigliato di andare da un mio amico psichiatra a lungo, ma invano.

Quel giorno avevo deciso di offrirgli la colazione in un bar accanto a quella chiesuola. Non mi ricordo il nome, ma è facilmente riconoscibile per il suo aspetto molto chic. Ci sedemmo fuori, in una specie di veranda con tavoli e sedie lignee.
«Deux croissant et deux cafè s’il vous plait!» feci alla cameriera, che ci sorrise compiacente sfregandosi le mani per il freddo.
«Carina eh?» lo apostrofai con lo sguardo. Lui non parlava, accennava un sorriso, ma era solo per farmi un piacere, glielo si leggeva negli occhi.
Mi feci serio e lo guardai negli occhi: «Allora, come stai?»
Alla fine per chiedere le cose basta un attimo, un conato di volontà che ti porta ad attivare il tuo apparato fonatorio per pronunciare quella frase unta e bisunta; poi viene la tachicardia e tutto il resto, ma almeno il più è fatto e ti rimane un po’ di sollievo addosso.
Alzò lo sguardo, accennò ancora un sorriso, fece per dire qualcosa… ma lo interruppi alzando la mano. Intanto erano arrivati caffè e croissant, come a risvegliarci. Sorrisi alla cameriera, che ricambiò con malizia (quattro secondi pieni di sguardo reciproco). Dopo questa parentesi ritornai a lui: lo guardai intensamente.
«La verità», dissi.
«Non lo so come sto Althes»
Lo guardavo cercando di raccogliere le pieghe del suo volto: era più a pezzi di quel che pensassi; leggevo la sua disperazione nelle pieghe della sua cute: si diramava come un tessuto canceroso che necrotizzava ogni speranza dal prospetto delle sue emozioni.

Il caffè finì quasi subito. Cominciò a raschiare la crosta caffeinica sul bordo della tazzina con una meticolosità maniacale. Lo notai proprio per questo quando ci conoscemmo, in ospedale. Si era fratturato una tibia: era in stampelle e prendeva un caffè al bancone del bar. Lo guardavo insistentemente mentre raschiava e raschiava la tazzina, con uno sguardo stanco, ma sveglio. Si voltò, mi sorrise e mi chiese se fossi un dottore. Da quella domanda è nata la nostra lunga conoscenza.

Gli occhi di allora ormai sono appena un filo: ora sono spenti, avvolti in una patina di assenza, lontani da quell’idillio. I pensieri gli stanno attorno, mentre al centro si affossa la morte, come una pupilla a fondo aperto al centro di un’iride sottile: lo so perché ho visto spesso quel tipo di sguardo, soprattutto nei familiari di certi miei pazienti… Non potevo fare a meno di notarlo. E pensare che quando si tratta di uno sconosciuto mi è più o meno indifferente: doloroso, sì, ma l’abitudine ti forza ad essere contenuto, come se una fionda ti tendesse fino allo spasimo il dolore. E forse c’è qualcosa del genere, nel cervello… Volevo che quell’allacciatura non andasse a piacere, come e quando vuole lei, come effettivamente era, ma che fosse sempre capace di rispondere alla mia strana egemonia.

Passammo il resto del tempo in silenzio: rimaneva nell’aria uno stantio dissapore che stringeva le mani in uno sfrigolio di freddo. Non diceva nulla, non ne aveva nemmeno intenzione. Vedevo solo nel suo labiale qualcosa di strano: una sorta di mormorio gli deformava le labbra.
«Che dici?», gli chiesi, illudendomi che mi avrebbe risposto qualcosa di coerente, o che mi avrebbe detto la verità.
«Niente amico mio, niente. Solo un po’ di depressione, la solita che mi porto dietro da un anno, tanto anche gli antichi portavano lutto per tanto tempo»
«Non erano le vedove?»
«Già…»
«Non intendevo dire questo… Cioè… Vabbè, lascia stare… Sai che vestono solo di nero? Ti rendi conto? E poi tu non sei vestito di nero oggi. Non sei davvero in lutto, ammettilo!»
Accennammo un sorriso, per quanto dietro di lui rimaneva tutto quel grumo irrisolto di infelicità – notarlo era come una spina conficcata nel polpastrello.
«Vai ancora lì?»
Si raggelò. Prese la brioche, rimasta intatta, posata su un piattino, coperto da un fazzoletto ricamato; era invitante: l’addentò voracemente. Delle scaglie si sbriciolarono sul piattino e sulla sua sciarpa, rendendo quella luce di prima un po’ troppo fioca per i miei gusti. Il suo sguardo vagava per la veranda, la piazzetta, la panetteria piccolissima là davanti, il cartello in francese baguette et café, un amour sans fin… Non appena deglutì mi mise lo sguardo addosso per non so quanto tempo… 10, 15 secondi credo, in silenzio. Poi guardava per terra, esitava, si tirava indietro col volto, risistemandosi sulla sedia.
«Sì, ogni giorno, perché?»
Lo disse con una calma terribile.

Un giorno presi e lo chiamai a casa. Suonava a vuoto. Scattò la segreteria… una voce femminile… mi venne un groppo in gola: era lei, con la sua voce antica; per un attimo ho pensato che fosse ancora viva, o che mi parlasse dall’aldilà. Ritornai alla realtà quando sentii la voce di lui che si alternava alla sua in un giochetto un po’ infantile, ma tenero alla fin fine; ebbi tuttavia una tensione di sconforto che andava dal torace all’addome, vibrando ai lati, come in una risacca. Mi aveva detto che aveva eliminato quel messaggio un anno fa per dimenticare almeno la sua voce, e poi…! Peccato che il cervello deposita tutto, neanche fosse un container.

Iniziai a chiamarlo al cellulare. Niente nemmeno lì. Solo una segreteria telefonica. Andai a casa sua: speravo fortemente che fosse solo depresso, che non avesse voglia di rispondere – era già successo e speravo che seguisse ancora questa logica. Arrivato al suo palazzo, suonai il citofono più e più volte. Niente.
Lo sconforto mi saliva addosso, mi si arrampicava contro, come un qualche rampicante. Come preso da una spinta, mi avventai sulla macchina, inserii le chiavi a fatica, mi caddero più volte, l’accesi… Andavo, forse troppo veloce, più del solito perlomeno, direzione casa dei dormienti (o cimitero).
Avvicinandomi, vedevo in lontananza le spie di un’ambulanza lampeggiare, bluastre: mi si stavano già inumidendo gli occhi… la vista mi si annebbiava. Rallentai per evitare di andare a sbattere, mi asciugai le lacrime. Forse non era lui… Poteva benissimo essere un altro, pensavo… Eppure rimaneva tutta questa masserizie come una plica in gola. Arrivato il più vicino possibile al luogo dell’incidente, scesi dalla macchina: vidi una coltre di gente, una sacca nera, con un cadavere dentro; già avevo tutto il male del mondo addosso, quando mi sentii vibrare una mano sulla spalle. Era lui! Lo abbracciai con tutta la mia forza, gli chiesi dove fosse finito… mille domande… Ero così sollevato e preoccupato insieme.
«Nulla di che… Mi sono dimenticato il cellulare a casa… Sai, erano le mie due ore giornaliere di meditazione», sorrise.
Sorrisi anche io. Gli chiesi che era successo. A quanto pare un uomo si era sparato in bocca davanti alla tomba di sua moglie: aveva perso tutto. Fu trovato in una pozza di sangue da una vecchietta, che in quel momento piangeva a dirotto sulla spalla di un volontario della croce viola.

Qualche giorno dopo quel cretino fece lo stesso gesto: si sparò al cuore. Del sangue e dei brani organici si erano sparsi sul vetro della teca: l’aveva fatto apposta di fronte ad una sua foto, una delle tante sparse per casa sua, come fosse l’esito fisico di un ricatto a se stesso. Ridicolo. E pensare che non sono mai riuscito a dirgli che mi scopavo sua moglie. Non l’aveva mai capito per fortuna. E quando la moglie aveva deciso di dirglielo… beh, sapete come va in questi casi, soprattutto se sei del mestiere: le ho dato una mano a sputar sangue all’improvviso, una spintarella insomma. Ma questa è un’altra storia.

Di Victor Attilio Campagna

Copertina

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