Invecchiamo insieme?

All’entrata della cittadina, il cartello che ne indica il nome se ne sta, svogliato, sorretto da due pali ormai ingobbiti dal tempo, ricurvi a tal punto che quel nome ormai non è più possibile leggerlo, guarda verso il suolo. Un tempo, fiero, quel cartello accoglieva tutti i suoi abitanti e visitatori con una grossa scritta rossa che recitava “BENVENUTI”. Adesso, non ha più nessuno da accogliere. Ormai nessuno fa più visita agli anziani.

Le strade di questa vecchia città, un tempo decorate da variopinte insegne, luci e asfalto liscio, sono ora deturpate da buche e crepe, come rughe che si intrecciano, rendendo difficoltoso il passaggio delle rarissime automobili che la attraversano. Quelle insegne, ora spente, non si accendono più per nessuno. Persino i lampioni, quasi ciechi, emanano una luce debolissima, che non permette di vedere molto più in là del proprio naso. Gli edifici, che prima si susseguivano in un arcobaleno di colori e fantasie, si presentano adesso grigi, con qualche sfumatura bianca. Tutti uguali nel colore, sono appassiti col tempo, perdendo l’intonaco e rendendo ogni via simile ad un’altra. Se non ci fossero sbilenchi cartelli ad indicarne il nome, qualcuno potrebbe addirittura perdersi.

A dispetto del suo aspetto, questa città non è un antico borgo medievale, non giace su quel suolo da centinaia di anni; Mariù, la prima bambina nata qui, durante il primo anno di vita della città, ha ottantacinque anni e vive ancora nella casa dov’è nata. È l’ultima abitante di questa vecchia città, è invecchiata con questo luogo. A vederla, Mariù somiglia molto alla città in cui è cresciuta: piccola di statura, magrolina e con una leggera gobba, porta i lunghi capelli ormai bianco candido sempre raccolti in un grande chignon. Le mani, increspate da rughe profonde, sono ormai abitate al costante tremolio che ogni giorno le accompagnano. Il suo viso, una volta segnato da sinceri sorrisi, ora presenta gli angoli delle bocca ricurvi verso il basso, intonati alla luce ormai spenta del suo sguardo.

Se qualcuno glielo chiedesse, Mariù potrebbe raccontare come fosse questa città quando lei era bambina: viva, colorata, coi bambini che giocavano per le strade e le mamme che facevano la spesa, mentre i papà andavano al lavoro. C’erano scuole, ragazzi che popolavano le piazzette d’estate, anziani seduti ai tavolini del bar che giocavano a carte. C’era la Vita a popolare questa piccola città.

Poi, a cinquant’anni dalla sua fondazione, invecchiando, questa città entrò in crisi. Cominciarono a subentrare i primi grigi ai colori sgargianti. Guardandola, sembrava quasi un’altra. La vita che prima la popolava, sembrava si stesse spegnendo lentamente. Molte famiglie cominciarono a trasferirsi altrove, coloro che rimasero abbandonarono le attività presenti, per dedicarsi alle stesse in una città più grande. Mariù cominciò a sentire il peso dei suoi anni, a guardarsi allo specchio e riconoscersi sempre meno ogni giorno che passava. Il suo volto e il suo corpo, segnati dal tempo, rappresentavano perfettamente i cambiamenti che stavano avvenendo nella città sua coetanea. Assisteva alla partenza delle persone a lei più care, che continuavano a ripeterle che avrebbe fatto meglio ad andarsene anche lei, a lasciare quella città destinata a morire.

Ma Mariù sapeva che non sono solo le città che muoiono. Anche a lei, un giorno, sarebbe toccato di lasciare questo mondo. Decise quindi che sarebbe accaduto con la città con cui era nata.

Negli anni, Mariù ha imparato a convivere con la solitudine di essere l’unica abitante della città. Ogni tanto i figli delle sue sorelle vengono a farle visita, così come qualche amica appartenuta alla sua giovinezza, al tempo in cui in quella città non viveva solo lei. Ma sono visite sporadiche; la sua quotidianità è composta unicamente da se stessa e dalla sua città. Conosce a memoria ogni via, ogni angolo, ogni ruga ed ogni capello bianco di questa città; non soffre la solitudine, perché la città le parla, le comunica ogni giorno la fatica di essere vecchia e stanca, sensazione che Mariù condivide.

L’ultima persona che era rimasta a condividere con Mariù quella città era stato suo marito: Carlo non aveva mai avuto problemi a comprendere il motivo per cui sua moglie non riuscisse ad abbandonare quel luogo; Carlo l’aveva sempre capita, come solo un’anima gemella alla propria può fare. Così, anche quando rimasero solo loro due, non oppose resistenza alla volontà di Mariù, per quanto il marito continuasse a frequentare anche le città vicine, in cui si recava quando la solitudine di quel luogo gli pesava sul cuore.

Dopo la morte di Carlo, le sorelle di Mariù hanno cercato più volte di convincerla a trasferirsi altrove. Saperla completamente sola in una città non le faceva stare tranquille, dicevano. Ma Mariù e la sua città erano giunte in quel momento della vita in cui smetti di preoccuparti di cosa pensano le altre persone; Mariù e la sua città vivevano soltanto per loro stesse, tirando avanti giorno per giorno, con la consapevolezza che ogni risveglio avrebbe potuto essere l’ultimo. Quando ti avvicini sempre più al finale, smette di interessarti quale sia il pensiero degli altri.

L’edificio che più di tutti ha sofferto lo scorrere di questi ottantacinque anni, è indubbiamente la vecchia scuola superiore, quella frequentata da Mariù durante la sua adolescenza. Spesso la donna rientra tra quelle mura, a rivivere i ricordi più belli della gioventù. Perché nessuno, andandosene, si è mai premurato di chiudere a chiave gli edifici e questa scoperta è stata per lei la sorpresa più bella. Passare i pomeriggi seduta nel suo vecchio banco, a leggere e rileggere i libri che l’hanno accompagnata per tutta la vita, è una delle più belle gioie della sua vecchiaia. Certo, la polvere, le finestre che non si chiudono più e il grigio generale che si è diffuso sull’edificio non rendono giustizia al meraviglioso istituto, ma d’estate quelle aule diventano il luogo più fresco della città.

Tutti i ricordi di Mariù sono racchiusi nei confini di questa città: l’infanzia felice con i suoi genitori e le sue sorelle, gli anni della scuola, l’incontro con Carlo e il loro splendido amore durato sessant’anni. Le estati trascorse in biblioteca o nel piccolo parco, gli inverni a pattinare sul laghetto ghiacciato, quella bambina che mise al mondo, ma che non fece in tempo ad amare. Ed è rimanendo ancorata a questi ricordi che Mariù sopporta ogni giorno di svegliarsi sola, di non vedere nessuno anche per settimane. La paura di perderli non le ha mai permesso di abbandonare quel luogo, come se, allontanandosi da lì, questi sarebbero potuti svanire ogni chilometro sempre di più.

Ancorata al passato e ai suoi ricordi, Mariù vive serena e sola in questa vecchia città, che le ha tenuto compagnia per tutta la vita e gliene terrà fino alla fine dei suoi giorni. Tutti quelli che la conoscono non possono non chiedersi che cosa ne sarà di quella città quando Mariù non ci sarà più. In molti, in realtà, se la immaginano andare via con lei, accompagnarla nel primo ed ultimo viaggio della sua vita.

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