dino campana

El Mat Campena

Dino Campana nasce nel 1885 a Marradi, un paese in provincia di Firenze. Tutti, o meglio, molti lo conoscono per i suoi Canti Orfici, un libro molto innovativo per l’epoca in cui fu composto, il 1914. Tanti lo conoscono anche perché ritenuto folle. Altri lo conoscono, più a buon diritto, per la grandezza e la drammaticità del suo verso.

Altri possono cercare in Sebastiano Vassalli una risposta a certe aporie tra la sua follia e il suo verso, così lucido e rivoluzionario. Quest’ultimo infatti ha steso l’introduzione a Un po’ del mio sangue, una raccolta assai ampia delle sue opere, edita da BUR. Nella sua introduzione sono chiarite molte cose, tra cui la presunta follia, che era una malattia imposta. Non a caso Campana scrisse che lo “volevano matto per forza”. Dimostrare che Campana non fosse matto non è così difficile: basta riportare che fu accettato come allievo ufficiale all’Accademia militare di Modena, nel 1903. E tra i militari non sono assolutamente ammesse persone con problemi psichici. Fu il 4 agosto del 1904 che un fatto non ancora chiarito ha interrotto la sua carriera nell’esercito. Ed è da qui che ebbe l’inizio della tragedia che fu la vita di Dino Campana.

Dino era una personalità molto forte: aveva il pallino della poesia e parlava quasi sempre di versi e filosofia, a volte con un ardore estremo, che nel piccolo paese di Marradi era visto come chiaro segno di follia. Purtroppo, spesso il dito di certe menti ristrette diventa drammaticamente giudice di quel che è normalità e quel che è follia. Dopo il fallimento nella carriera militare Campana tentò una puntata all’Università. Si iscrisse a Chimica pura, poi farmaceutica, ma diede pochi esami. Pare che quando fallì uno di questi incominciò la sua fuga.

Tra una traversie e l’altra nella sua vita, il 9 aprile 1909 viene internato in un manicomio, dopo un’ubriacatura e una lite con un carabiniere. Venne dimesso dopo pochi giorni, perché non lo ritenevano matto. Dopo partì per l’Argentina, in cui rimase poche settimane: vi fu mandato per direttissima dai suoi genitori (con particolare foga della madre, che lo detestava). Definì questo viaggio una passeggiata in tram, titolo di una prosa poetica, per indicare quanto sia stato breve e insignificante. Non voleva essere il poeta italo-argentino, come molti volevano.

Ritornò in Europa, sbarcò ad Anversa e fu fermato al confine tra Belgio e Francia. L’estradizione richiedeva più tempo del previsto perché i genitori non ne volevano più sapere del loro figlio matto.

Ma da dove nasce la follia di Campana, o il suo mito?

Sin da ragazzo Campana era soprannominato dai suoi compaesani El mat Campena e spesso veniva deriso. L’avevano costretto alla follia perché insistevano sempre su questo argomento, cercavano di obbligarlo, perché era l’unica spiegazione possibile del suo genio. Però, leggendo i suoi versi e le sue prose poetiche, si nota, appunto, un genio della poesia come pochi se ne videro.

E purtroppo la critica di allora, della Firenze in cui regnavano Soffici e Papini, considerava Campana un matto e i suoi versi orride prese in giro. Pensavano non fosse un poeta, ma un esibizionista cui piaceva scribacchiare. E cercarono di confermarne la follia tramite una biografia di Pariani (che condusse sperimenti di Elettrochoc su di lui), suo psichiatra. Quest’ultimo gli chiedeva di leggere e interpretare i suoi Canti, cosa che Dino detestava, perché sapeva che la finalità non era discutere di poesia, ma di follia. Allora gli diede quel che voleva, ossia deliri, frasi altisonanti, che sembravano prive di significato.

In realtà Campana trascorse i suoi ultimi anni, dal 1915 al 1932, in manicomio non perché folle, ma perché malato di sifilide, segnata come “nefrite” perché la famiglia non si poteva permettere una malattia così disonorevole. È falso anche il fatto che sia morto per una setticemia perché si graffiò col filo spinato allo scroto mentre tentava di fuggire. Morì di sifilide.

Restano di lui i suoi versi. E ancora oggi si accomuna la figura di Dino Campana con il folle, o con il poeta romanticamente pazzo. Nulla di tutto questo: Dino ebbe una vita drammatica, che lo portò ad essere etichettato come folle. Già la critica di allora vedeva nei suoi versi qualcosa di eccessivamente stravagante, di nuovo. Questo perché Campana voleva dare musicalità al verso, tant’è che lo recitava spesso. Infatti le sue poesie sono molto particolari soprattutto per la loro musicalità e per la loro forza espressiva, tanto semplice quanto intensa. Inoltre, usava in toto le potenzialità della nostra lingua, tant’è che fondeva prosa e poesia, scrivendo dei poemetti in prosa. Quadri cittadini, rivelatori di una società e di un istinto comune: Dino si è fatto specchio di un’epoca.

Campana, dunque, era prima di tutto un poeta, non un folle. Tutt’al più uno della leggera, gergo per definire gli ultimi, i vagabondi. Egli scrisse che conduceva una vita magra, ma che tutto era volto alla forza della poesia.

Forse il poeta di Marradi, morto in manicomio a Faenza nel 1932, è l’esempio più chiaro di come la poesia possa rasentare l’idea di follia, senza tuttavia toccarla. Anzi, era più lucido di molti suoi contemporanei, nacque solo nel paese sbagliato.

Di lui Pariani scrisse:

«Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison. Posso vivere anche senza mangiare, sono elettrico. Attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettrica. Credevo che mi avessero rotta una vena del cervello…»

FONTI

D. Campana, S. Vassalli (a cura di), Un po’ del mio sangue. Canti Orfici, Poesie sparse, Canto proletario italo-francese, Lettere (1910-1931), BUR, 2005

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