C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui annunciare a mamma e papà che si era in procinto di andare a vivere da soli, ad un’ età intorno ai venticinque, rappresentava, se non la regola, per lo meno la norma.
Venticinque anni voleva dire avere un lavoro fisso, un’indipendenza economica, sapersi arrangiare, cose che per i ventenni di oggi sembrano favole. Ogni tanto si sente raccontare di qualche amico del cugino della vicina di casa della prozia che, con tono sprezzante per la situazione, racconta: “Ah guarda, lui finite le superiori è stato assunto fisso nella ditta tal dei tali, validissima, ottimo stipendio, un signor lavoro. Poi, giustamente, dopo un paio d’anni ha deciso di prendere un appartamento. Quindi non è poi così impossibile…“.
In quei momenti non si può far altro che ascoltare, annuire, pensare che uno su mille ce la fa e sfoggiare un sorriso per evitare di aprire la polemica sul fatto che si tratti di un caso, un caso fortunato in un mare di soggetti, modello della generazione sfortunata. La maggioranza, a venticinque anni, ha un livello di indipendenza economica che al massimo permette di autofinanziarsi le uscite nel week end, con che coraggio ci si organizza per mollare il nido?
E mentre stai pensando a quanto vorresti far presente tutte queste cose alla zia, magari con la stessa velata malizia che ha usato lei cercando di farti sentire un fallito, sorridi e annuisci, con una smorfia di rassegnazione. Rassegnazione per la condanna a dover vedere l’autonomia come un sogno e per la consapevolezza che le generazioni precedenti all’attuale tendono a sminuire, come se fosse colpa dei “giovani d’oggi”, anziché provare a capire la situazione.
C’è stato un tempo…
Nel 1987 usciva il film di Dino Risi “Vado a vivere da solo”, in cui il protagonista, il ventisettenne Giacomo (Jerry Calà), che incarna alla perfezione il cliché odierno del “ragazzo cresciuto”, decide di buttarsi, fare il grande passo. Dove trova i mezzi? Mamma e papà ovviamente. Esempio di genitori accondiscendenti che, pur di vedere felice il loro pargolo, decidono di prendergli un appartamento. Che tipo è Giacomino (così lo chiamano i suoi)? Giacomino è uno studente di architettura fuoricorso, non ha mai mosso un dito ed è sempre stato accontentato, aiutato e assecondato dai genitori; è questo lo stereotipo che giustifica lo sguardo di disapprovazione della fantomatica prozia. Ecco perché siamo condannati all’etichetta di “bamboccioni”.
Poi c’è la categoria dei giovani in gamba, stile “Generazione 1000 euro” (film del 2009), dei ragazzi svegli e capaci che riescono a tenersi a galla con i pochi, o nulli, mezzi che la società gli offre, le cui esperienze è più comodo non prendere in considerazione perché sono la prova di un fallo nel sistema, invece che degli insuccessi di una generazione.
C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui diventare indipendenti prima dei trenta era la norma. E poi c’è il tempo attuale, invece, in cui diventare indipendenti è un azzardo, una scommessa contro forze quali la precarietà e l’incertezza. Fattori che regolano il mondo delle generazioni attuali; un mondo in cui sembra di dover arrancare in silenzio, sopportare le occhiatacce di rimprovero, dimostrare, senza sperare in troppi applausi, che si è in grado di darsi da fare.
L’obiettivo è quello di poter dire presto: “Mamma, papà, vado a vivere da solo… E lo faccio da solo!”.