I poeti si lavano e spesso. Al poeta però interessa lo sporco, quello che pochi toccherebbero, ma che lui invece, incarnazione di chi cerca un oltre, vuole sentire e toccare. Ovviamente tutto a livello simbolico…per intendersi.
L’indovino Fineo nelle Argonautiche
C’è una storia, a tal proposito, riportata da Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, che tratta dell’indovino Fineo. Condannato secondo alcune versioni da Zeus, secondo altre da Era e Poseidone, ad avere il pasto contaminato dalle Arpie Aellopoda e Ocipeta. La contaminazione consisteva nelle feci di queste ultime, che dovevano defecare e orinare sulle cibarie che venivano portate sulla soglia di casa di Fineo da tutti coloro che volevano qualche responso. Gli argonauti Calaide e Zete lo liberarono da questa maledizione, scacciando le Arpie.
Ora, questo che c’entra con la poesia?
Fineo era un indovino che ospitò Enea (e di qui la versione di Era e Poseidone) e che rivelava i piani degli dei ai mortali (di qui quella che ha Zeus come mandante). Ai fini del nostro discorso interessa però la seconda versione del mito a giustificazione della punizione.
Rivelare i segreti del divino agli uomini suscita le ire di Zeus, il re degli dei. Ma perché?
La relazione col poeta, in questo senso, è immediata: Fineo, come l’aedo greco, rivela agli uomini l’identità degli dei che stanno dietro gli eventi e che vengono interpretati come misteriosi. Questa capacità di vedere la realtà divina è presente già in Omero, laddove riesce a giustificare con la presenza degli dei certe azioni che per gli uomini sono inspiegabili. Così Fineo rivela i piani degli dei e anticipa ai mortali le ragioni per cui avverranno certi eventi. Questo, naturalmente, non può essere tollerato dal re degli dei, che regola il destino degli uomini.
La punizione è centrale per capire come al poeta-indovino interessi l’impuro: le Arpie insozzano il cibo che sta sulla sua soglia.
C’è un chiaro motivo per tutto: da una parte la soglia è il simbolo della capacità dell’indovino di portarsi in una condizione esistenziale che sta tra cielo e terra. Quindi sta al confine, in un punto che gli permette di osservare sia i mortali, sia gli immortali. Dall’altra, il cibo insozzato dalle feci che lui si trova costretto a mangiare: anche qui si ritrova un confine, in quanto le feci sono, simbolicamente, ciò che permette di coltivare il cibo. Rappresentano un limite fra il frutto della terra e il frutto del ventre. Pare un ragionamento astruso, ma è questa l’interpretazione simbolica comunemente accettata del mito.
Il poeta è “sporco”
Del resto quest’immagine del poeta come figura preveggente, che a terra appare goffo, ma che al contempo riesce a vedere il cielo nei suoi segreti più astrusi, è presente ne L’Albatros di Baudelaire. Un uccello lercio e goffo, ma che in cielo spiega tutta la sua potenza.
Il poeta in questo senso è sporco: deve osservare tutto dell’uomo, anche le bassezze, e per questo è percepito dal volgo come diverso, come una persona da distanziare, perché strana, poco pulita.
Questo non significa che i poeti puzzino. Essi, piuttosto, inquietano, perché guardano da un punto di vista diverso lo sporco del mondo, rendendosi conto che è anche con il letame che possiamo portare in tavola il nostro cibo. La differenza è che il poeta non ha da disgustarsi, perché in questo intravede anche la forte interconnessione che c’è in natura. Al limite dell’eterno ritorno.
Ecco, forse in questo senso il poeta è scarsamente igienico: non vuole purificarsi, ma vuole insozzarsi di tutto, per uscire fuori dalla fanghiglia più conscio.
FONTI
Apollonio Rodio, Argonautiche
Charles Baudelaire, I fiori del male
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