Candide bellezze orientali dai fini lineamenti di ceramica: un’atmosfera mistica e spirituale pervade nel nostro immaginario le lontane regioni dell’Asia. Stereotipata al punto che i lievi veli di seta vanno ora ad oscurare i nostri occhi. Stereotipi e archetipi di un Orientalismo che sempre più spesso ci priva di un’interpretazione oggettiva delle notizie dal Sol Levante. Per scarso interesse, difficoltà nel reperire le fonti, per non sfatare il mito dell’Oriente diverso ed incomprensibile.
Cosa sappiamo (in Occidente) del Medio Oriente?
Come ha illustrato Junko Terao (editor di “Asia e Pacifico” di «Internazionale») al Festival Internazionale del Giornalismo 2015 (Perugia, 15-19 Aprile), le voci giunte dall’estremo Oriente non sempre sono approfondite: lo scandalo fa copie, ed il rischio di reclami dal Pacifico è spesso inesistente.
Si tratta della stessa noncuranza che ha portato su molti giornali occidentali il cosiddetto “Pancake di Isis”, in cui donne accolgono i combattenti reduci dalla guerra: un’estrema semplificazione di un più ampio concetto di propaganda degli Jihadisti. Nel caso dell’Esercito Islamico, tuttavia, gli stereotipi ci sono volontariamente forniti, nella creazione di un immaginario fatto di arcaiche immagini di terrore.
“Don’t hear about us, hear from us”, è questo il motto: esecuzioni plateali su palcoscenici da “Le mille e una notte”, sciabole e tuniche nere, quasi si trattasse di Guerrieri ninja. E il deserto sullo sfondo. Immagini che l’Occidente accetta incrementando il mito di paura e potenza che Isis va edificando attorno a sé, figure medievali che assumono realismo e immediatezza nella loro modalità di diffusione, i Social Media.
E’ qui che il nostro ruolo passivo diviene fonte di attivismo nel diffondere la loro autorappresentazione nel mondo. E nell’irrefrenabile corsa alle notizie, si affianca al problema di attendibilità delle fonti una più ampia Responsabilità internazionale: la gestione di un annuncio che non si ha il tempo di verificare; che se occultato viene meno al proprio ruolo informativo, se diffuso ingigantisce la spettacolarizzazione jihadista.
Che l’Isis fondi la propria potenza su un tipo di propaganda orizzontale non è certo una novità. Particolarmente interessante è il ruolo femminile, canale fondamentale per attirare uomini e donne.
Così nel Web viaggiano immagini di gattini e vasetti di Nutella da un lato, di donne velate su una Mercedes che impugnano un kalashnikov dall’altro, con l’obiettivo di mostrare una Harakka e una Mosul felici. “Principesse guerriere”, le descrive Marta Serafini («Corriere della sera») durante la conferenza “Isis dentro l’esercito del terrore tra Social Media e Dio”. Titolo emblematico, giacché nella guerra dei Media lo stesso Dio diventa pubblicità vivente. Fabio Chiusi (giornalista freelance) lo cataloga come un mezzo di legittimazione e giustificazione di una Guerra del terrore; ma dietro tale maschera, c’è ancora del sacro?
“L’idea di Dio viene molto strumentalizzata (religione ed Isis non corrispondono affatto), come è evidente soprattutto nel caso delle donne, in cui si crea un’ulteriore forma di violenza”
è la risposta sicura di Marta Serafini, in una breve intervista successiva alla conferenza.
Per il giornalista Pietrangelo Buttafuoco, invece, si tratterebbe ancora di una guerra sacra, che procede però nella direzione opposta, con l’obiettivo nichilista di annientare la presenza di Dio nell’uomo.
Una guerra volendo metafisica, ma soprattutto una guerra dei Media, spesso non corrispondente alla realtà militare difficile da verificare.
Quale è allora la linea che i Social Occidentali dovrebbero adottare? Dove è il confine tra giornalismo e propaganda?
Twitter passa da 2.000 a 10.000 account rimossi a settimana. Il governo americano con la morte di Foley chiede la rimozione del filmato. Il Medio Oriente finisce con forza sui nostri quotidiani, la rapidità con cui le notizie si diffondono sulla rete ne rafforza la veridicità: è un’invasione virtuale cui non sappiamo contrappore una contro-narrazione adeguata, preferendovi spesso la rimozione.
Nel frattempo però rischiamo di abituarci a questo tipo di violenza, spostando sempre più in là il nostro livello di tolleranza. Una violenza che non si accontenta di se stessa e della propria spettacolarizzazione; che si auto-incrementa con l’idea di una bolla in espansione continua che non trova riscontro nei fatti.
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