« Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. »
(vv. 4-6)
Siamo dentro la città di Dite, nella selva che si trova al di là del Flegetonte, dove giacciono le anime dei suicidi, peccatori inseriti addirittura dopo gli omicidi perché la loro è una colpa ancora più grave, è la massima ingiustizia verso se stessi e la massima ingiuria verso Dio.
Così commenta Roberto Benigni il XIII canto dell’Inferno dantesco, assiomatizzando l’intera concezione cristiano-cattolica del suicidio.
Il peccato del suicidio
Nella religione ebraica il suicidio è espressamente uno dei peccati più colpevolizzanti: “Non porre alcuno scoglio davanti al cieco” (Levitico 19:14).
Allo stesso modo è condannata dal Buddhismo, dall’Induismo e dalla religione Islamica, salvo che, per quest’ultima , le modalità con cui si decide di togliersi la vita diano il tempo necessario per pentirsi e implorare il perdono di Allah.
L’Hadith che si crede giustifichi gli attentati suicidi è l’824-829 riferito da Ahmad e Al Tirmidhi. I privilegi di un martire sono garantiti da Allah:
Avrà il perdono al primo fluire del suo sangue; gli verrà mostrato il suo seggio in paradiso, sarà decorato con i gioielli della fede, sposato alle più belle, protetto dalle prove nel sepolcro, garantito della sicurezza nel giorno del giudizio, un rubino più prezioso di tutto questo mondo e di tutto il suo contenuto, sposato a settantadue delle più pure urì (le più belle del paradiso) e la sua intercessione sarà accettata per conto di settanta suoi parenti.
Da qui il perché del terrorismo islamico, la questione dell’harem pieno di vergini e la solita solfa del “premio dopo la morte”. Storie scritte, lette, sentite e analizzate una quantità innumerevole di volte.
Ci si potrebbe chiedere perché per loro, a differenza di tutti gli altri, “il gioco valga la candela”.
Ma per rispondere basterebbe citare Montaigne , filosofo francese che legittimava il suicidio come massima forma di libertà da parte dell’essere umano.
Non si vuole, in questa sede, fare un asettico elenco della visione del suicidio per le varie religioni del mondo, ma piuttosto riuscire ad analizzarlo nelle sue più improbabili sfaccettature.
Il rapporto suicidio-religione
Se si pensa al rapporto suicidio-religione, cercando di allontanarsi dalla dogmatica concezione di suicidio ed intenderlo in senso lato, si potrebbe anche azzardare una riflessione sul suicidio delle proprie capacità d’indagine, un suicidio della propria curiosità, un suicidio della propria libertà di domandarsi del perché e del per come di una serie di tutte quelle cose che hanno incentivato quello che si può intendere come la massima espressione del lato trascendentale dell’essere umano stesso dalla filosofia alla scienza naturale.
Per esempio, un convinto credente cristiano dovrebbe accettare un lutto, in qualsiasi forma esso si presenti, come “volere di Dio” senza poter pertanto rattristarsi, arrabbiarsi o dare di matto. Allo stesso modo non si potrebbe neanche muover critica allo scempio dell’ istituzione clericale poiché , nella stessa definizione di Chiesa, è presente l’ essenza umana, peccatrice per natura; pertanto il “Convinto Credente Cristiano” non potrebbe che chinare il capo e accettare biecamente la verità dei fatti.
Purtroppo o per fortuna questo non succede, il suicidio intellettuale rimane circoscritto ad un’accettazione di fede per adattamento, abitudine e cause circostanziali.
Non si parla di “Terrorismo Cristiano”, ma di Terrorismo Islamico. Non si parla di “ bieca accettazione del lutto” perché, purtroppo o per fortuna, non si ha cognizione di causa di ciò in cui si crede.
Siamo in un momento storico in cui il suicidio religioso si rende più manifesto che mai. L’effetto è la strage dei piccoli imprenditori, soggiogati da questa “Economocrazia”, della quale si fanno luoghi di culto le banche, sacerdoti i banchieri.
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