“Io mi sono sempre opposto alla realtà: viviamo un’esistenza molto crudele e se c’è un’opportunità per sfuggirla io la prendo al volo. Il problema è che è molto difficile riuscire a ignorare la realtà” (Woody Allen).
E’ proprio nelle giornate di pioggia che capita di inciampare in qualche vecchio film. Con l’ormai datata pellicola Melinda e Melinda (2004), assistiamo alla potente sintesi della poetica alleniana – realismo o relativismo? – incentrata sullo spinoso quanto attuale interrogativo sul senso della vita, se essa sia più tragica o più comica. Il famoso bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Un sapiente esperimento narrativo con cui Allen – vagamente subdolo e beffardo – tiene le redini della sua sceneggiatura dalla trama frizzante, raffinata, a tratti languida, esile e cerebrale, per trascinarci nella sua storia. Allen celebra lo stile di vita della borghesia benestante newyorkese che si concede lussi prêt-à-porter (corse di cavalli, enoteche d’élite, teatri off Broadway, weekend a Long Island, ..) e lo travolge con una vicenda “tragica”, proposta in alternanza alla versione “comica” dello stesso soggetto: Melinda, una ragazza dal passato eufemisticamente burrascoso e calamita per sempre nuovi quanto infausti eventi – tragicomici appunto. Fa da cornice la sfida tra un drammaturgo e un comico, seduti al bar, impegnati a convincere l’interlocutore del prevalere, secondo l’uno, dell’ottica “comica”, secondo l’altro, di quella “tragica”, due lati della stessa medaglia, due aspetti della nostra vita. Pressoché gli stessi personaggi e circostanze iniziali identiche, ma sviluppate differentemente – camaleontico.
“Tutto è relativo” e non nel senso che, entro certi limiti, ognuno interpreta e reagisce agli stimoli esterni: questo sarebbe sano realismo. Il senso del film, invece, è più radicale: nella vita di una persona, il valore degli eventi è del tutto opinabile, quasi casuale, perché di per sé quegli eventi, non hanno né valore né connotazione. Tutto dipende dalla prospettiva, tragica o comica, in cui si sceglie di vedere le cose. In filosofia, questo modo di ragionare si chiama “relativismo”. Allen ne è stato il grande portavoce cinematografico tanto quanto Nietzsche ne fu quello teoretico. La vita non ha un senso. Woody ci crede fermamente, ma non lo accetta e attraverso la sua geniale ironia ci induce ad inghiottire il boccone amaro, non prima tuttavia di averlo opportunamente edulcorato – basta un poco di zucchero e la pillola va giù.
E quando tutt’un tratto il film si chiude e compaiono le sequenze dei titoli di coda in carattere Windsor bianco su sfondo nero, senza effetti di scorrimento, con musica jazz di sottofondo, realizziamo la metafora della vita – insignificante, crudele e troppo corta – che sfugge ad ogni nostro tentativo di controllo e che in quanto tale dovrebbe essere presa con una saggezza adeguatamente intorpidita – magari da un buon bicchiere di vino in compagnia.
«Le nostre vite sono piene di momenti casuali, che non controlliamo affatto ma finiscono per premiarci o punirci in forme spropositate. Cammini da una parte della strada e tutto va bene, scegli l’altro lato e un pianoforte ti cade in testa. E tutto cambia!».
Questa è la vita, sta a noi scegliere se essere protagonisti di un film comico o drammatico.
Silvia Bononi