Ho ascoltato con più attenzione la canzone Hotel California degli Eagles, brano contenuto nell’omonimo album pubblicato l’8 dicembre del 1976. Ad un primo ascolto un po’ superficiale, pur essendo affascinata dall’agrodolce malinconia, non sono riuscita a comprenderne appieno il significato. Spinta da una sana curiosità ho vagato sul web alla ricerca di una spiegazione. Perché questo povero viaggiatore si ritrova in questo strano hotel, un po’ decadente e degradato, seppur affascinante? Forse il paradiso, forse l’inferno (“This could be Heaven or this could be Hell“)? E soprattutto, perché non può uscirne?
Il brano comincia così: un giovane ragazzo guida nel deserto californiano. Preso dalla stanchezza, in lontananza vede una luce: l’insegna di un hotel dove decide di fermarsi per la notte. Entra così nell’Hotel California.
Nella seconda strofa vengono presentati alcuni clienti dell’hotel, in particolare una donna all’apparenza superficiale: pensa solo a Tiffany, guida una Mercedes ed è circondata da bei ragazzi che si ostina a considerare amici… e poi altri che ballano, per ricordare, per dimenticare. Pian piano si comincia scorgere l’amarezza, la disperazione che, nonostante gli agi, regna sovrana. Questo tema viene poi mantenuto ed esacerbato per le successive due strofe, dove la donna arriverà a sottolineare come sono tutti prigionieri dei loro stessi capricci (“We are all just prisoners here, of our own device“). Nel finale, il protagonista tenta di fuggire, di ritornare dov’era prima, ma non è possibile. Può uscire, sì, ma non potrà mai andarsene: “You can check-out any time you like / But you can never leave!“.
Ma di cosa parla davvero? Cos’è l’hotel California? L’inferno? Secondo gli Eagles non è altro che il sogno americano: “una canzone sull’oscura vulnerabilità del sogno americano, che è qualcosa che conosciamo bene” così Don Henley batterista della band. Un sogno, nulla di più, che all’epoca in cui canta la band ha affascinato con le sue promesse intere generazioni.
Queste generazioni, una volta giunte alla meta, si sono ritrovate in qualcosa d’inesistente, pieno di lussi, di ostentazione, ma vuoto. In particolare la canzone fa riferimento alla borghesia di Los Angeles: “Plenty of room… Any time of year” per poi definire quel luogo “Such a lovely place”. Il sogno ghermisce le prede senza lasciarle più fuggire. Una volta perso il contatto con la realtà non si torna più indietro, relegando le persone in un mondo che mollemente prosegue, stanco, privo dell’entusiasmo e della vitalità passata. Sembrano tutti in un vecchio palazzo aristocratico di una famiglia in disgrazia che, seppur con il mobilio logoro, prosegue a vivere nello stesso sfarzo di prima. Il giovane della canzone si potrebbe paragonare ad un povero ragazzo di belle speranze, ricco della sua vita e della sua voglia di fare, che guarda da lontano questo benessere ostentato, invidiandolo. Solo avvicinandosi potrà vedere le schegge di quei mobili, il logorio dei tappeti e le toppe sui divani. Il problema è che quando si è dentro questo palazzo, come se tutti indossassero un paio di lenti tinte di rosa, si inizia a vedere la realtà secondo le radiazioni di quel colore, dimenticandosi di come stanno realmente le cose. È così che prosegue la sua vita, ora, dolcemente, rendendosi conto solo a tratti, con disperazione, delle sbarre di cristallo, ma ricadendo presto nell’oblio della vita stessa.
Di Elisa Celeste Toffoli
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