Di Italo Angelo Petrone
Da alcuni è considerato il più grande romanzo del ventesimo secolo. Per altri, l’autore, Louis-Ferdinand Céline è “il Kafka del Novecento”. Per altri ancora si tratta solo di un semplice romanzo pieno di misantropia. Certo è che Viaggio al termine della notte è un romanzo indelebile dalla storia della letteratura del Novecento e di sempre.
Il testo, di natura autobiografica, è piuttosto corposo. L’edizione Corbaccio con traduzione di Ernesto Ferrero supera le 500 pagine preannunciandosi impegnativo. Tuttavia si può serenamente affermare che è più che degno del titolo che porta.
Il protagonista del “viaggio” è Ferdinand Bardamu, che altri non è che l’autore stesso. In prima persona, come tutti i suoi romanzi, l’autore racconta le avventure della sua vita travagliata. Un medico francese che si arruola per la prima guerra mondiale, e finisce poi nelle colonie francesi del Camerun. In seguito lavora come operaio tra i capannoni industriali di Detroit, per poi finalmente giungere a Parigi: prima nelle periferie degradate come medico dei poveri, poi in un centro di salute mentale come direttore.
Accompagnato da numerosi personaggi, spesso compagni di sventure, donnaccie, o semplicemente donne dagli amori complicati ed impossibili, Céline racconta se stesso, l’uomo moderno e la vita. Si intuisce da subito che il romanzo non presenta particolari tecniche narrative in grado di stupire o di creare intrecci affascinanti. Non è questa la sua missione. Ciò che affascina è invece l’analisi tanto misantropica e dissacrante, quanto veritiera e storicizzata dell’essere moderno.
Il lessico vede l’uso estremamente preciso dei diversi gerghi (slang, come direbbero i traditori dell’italiano), dei vari ambienti frequentati dal protagonista. Insieme al racconto dei fatti e degli eventi che il personaggio incontra, si trovano gustosi aneddoti sulla natura umana. Avvertimenti, consigli al lettore, suggestioni, brevi analisi spesso pessimiste sulla salvezza dell’anima: sono una costante presenza in ogni capitolo al fianco dei fatti. Laddove questi mancano, gli stessi dialoghi con i personaggi incontrati fanno da analisi storico-filosofica dell’uomo del Novecento. In tutto ciò, è satiricamente viva un’ironia che non tarda a strappare sorrisi al lettore.
Di facile lettura, è il capolavoro dell’emarginato scrittore e medico francese che visse a cavallo delle due guerre mondiali, seguito da Morte a Credito.
Per capire a fondo la filosofia di Céline e del suo testo maggiore, dobbiamo tuttavia leggere la sua vita e le sue vicende. Un uomo che trova nel “viaggio” fisico o mentale l’unica salvezza. Dunque nell’immaginazione. Tanto da arrivare al punto da credere che il confine tra questa e la realtà sia trascurabile, in quanto è tutto dominato dal moto dell’immagine più che dalla sua natura.
Famosa è la citazione introduttiva, utilizzata anche dal regista Paolo Sorrentino in “La grande bellezza”:
<< Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose: è tutto inventato. >>
Tornando alla vita dello scrittore, effettivamente, il testo, tratta per buona parte del suo trascorso, dei passaggi che hanno fatto sì che l’autore maturasse quella visione del mondo e dell’uomo che dal romanzo trasuda visibilmente.
Céline vive le maggiori disgrazie della sua epoca: le guerre mondiali, l’industrializzazione, la fine del colonialismo e l’inizio dell’individualismo che secca le anime. Dopo la seconda guerra mondiale è accusato di collaborazionismo con il governo di Vichy e di antisemitismo per via di alcuni pamphlet scritti contro la religione ebraica. Questo sentimento sembra esser legato ad una vicenda sentimentale: alla relazione con l’americana Elisabeth Craig, finita per via di un uomo ebreo. L’autore in ogni caso non si è mai dichiarato nazista.
Dopo l’esilio torna nella Francia del dopoguerra, dove l’ambiente letterario di sinistra di Sarte (che Céline amava chiamare Tartre) e Camus lo emarginano, tanto da toglierli ogni speranza di pubblicazione. Grazie a degli editori francesi, Gallimard e a Robert Denoël, nel 1932 riesce a pubblicare il Viaggio, con non poche difficoltà. Negli anni Cinquanta inizia ad avere notorietà europea e mondiale, fino ai nostri giorni. Dopo una vita di viaggi e lavoro termina i suoi anni a Meudon, nella periferia di Parigi. Ormai solo, insieme alla fedele terza moglie, Lucette, in dieci anni esce di casa solo 3 volte, circondato dai suoi animali domestici. Si dedica interamente alla letteratura fino alla morte per emorragia celebrale nel 1961.
Recentemente è stato fortemente rivalutato, dopo che si è accuratamente approvata la sua posizione non netta nei confronti del Nazismo, seppur permane una natura antisemitica non violenta nell’autore. Resta indubbiamente una figura ambigua in termini politici, cosa che lo ha penalizzato mentre era ancora in vita.
Nella Metamorfosi e più in generale Kafka ha descritto l’uomo dell’Ottocento, le sue pene, le sue prigioni umane e sociali. Lo stesso nell’opera di Céline. Una forte analisi sociale, sul potere moderno, sulla guerra, sull’economia, sull’amore. Le relazioni tra gli uomini e dell’umanità, il suo rapporto con il denaro, il sesso, la materia. Tutto è vissuto in prima persona dall’autore, permettendogli di spogliare e sviscerare gli aspetti più intimi e reconditi dell’uomo al punto tale da analizzarli con scientificità non meglio specificata. Mostra così al lettore l’aberrazione delle azioni dell’uomo, la sua piccolezza dinanzi alla vita. Quindi i suoi rifugi per non accettarsi e vivere ancora convinto di essere felice. Fino a riuscire a preannunciare quel che la natura umana sarebbe poi divenuta proprio negli anni in cui viviamo noi postmoderni. Tra gli infiniti passaggi citabili del testo, uno in particolare coglie questo punto, ovvero il dialogo con lo psichiatra dottor Baryton sul venir meno della misura negli uomini.
È un testo duro e pregno, spesso arido e totalmente nichilista, ma mai noioso, che ha influenzato molti artisti, non solo scrittori. Da Kurt Vonnegut a Charles Bukowski, dal regista Paolo Sorrentino al cantautore Giorgio Gaber e molti altri. Nel voler comprendere i nostri tempi, al pari di Aldous Huxley o del Ernst Juenger, tra i grandi dimenticati del Novecento che dobbiamo assolutamente riscoprire, discutere e far rinascere, c’è Lousi-Ferdinand Céline, o Ferdinand Bardamu, per chi considera questo testo non solo un romanzo ma una vera e propria guida per la vita e il mondo postmoderno.
Al netto della sua discussa storia politica e delle sue posizioni razziali si afferma come l’autore che descrisse l’uomo del Novecento.
Non troverete le illusioni meravigliose del realismo magico di Gabo, tanto meno le bellezze paesaggistiche flaubertiane.
No, troverete solo sporche verità accompagnate da una lusinghiera e vanitosa ironia che sarà capace di ridere delle disgrazie di un uomo, della razza umana, del suo tempo e della costante ed imperterrita questione del significato della natura umana.