“It only takes one voice to change history” scritto a lettere bianche sul volto serio di una donna afroamericana che punta lo sguardo dritto a noi. È e questa l’emblematica locandina del film Confirmation prodotto dalla HBO.
Questi elementi preannunciano quello che poi troveremo lungo il corso della storia proposta, degli occhi indagatori che ci chiedono di non distogliere lo sguardo da quello che stiamo guardando, da quello che è successo e ancora davanti a noi continua a succedere. Gli occhi sono quelli di Kerry Washington l’attrice che interpreta Anita Hill, che nel 1991 sconvolse l’opinione pubblica americana denunciando un uomo per molestie sessuali.
La stampa non faceva altro che ripetere che quanto affermato in aula durante il processo era ignobile e disgustoso, forse senza rendersi conto che quelle parole erano uscite dalla bocca di un futuro giudice della corte suprema, erano parole di Clarence Thomas. Erano gli anni in cui Bush padre governava l’America. Della questione se ne lavò le mani, ma non fece altrettanto l’opinione pubblica e le altre donne che in questa figura e causa trovarono loro stesse ed il coraggio di parlare.
Il regista Rick Fumaywa non ci racconta un classico scandalo incentrato sul sesso e politica, scoppiato giusto per creare un gran polverone e finito con le solite battute scontate e mutandine di pizzo, ci racconta quella che è stata la storia di Anita Hill, una storia importante e recente che ha cambiato la condizione della donna, anche se lentamente, è riuscita a farle uscire dal guscio, ad alzare la testa e smettere di subire. Durante l’intera pellicola i temi toccati sono svariati, dalle molestie sessuali al razzismo, si ha il panorama completo di tutte le discriminazioni applicabili ad un individuo in base alla sua appartenenza o meno ad una minoranza che sia etnica o sessuale non ha importanza.
Sarà un duello senza esclusione di colpi, dove forse anche il patetico vittimismo è una carta vincente, ma non sarà usato da quella che convenzionalmente è la parte debole, la donna, ma da Clarence Thomas che davanti ai colleghi userà la carta della discriminazione razziale come spauracchio da un’eventuale solidarietà per la professoressa Hill, la quale, forse è bene sottolinearlo ulteriormente, è afroamericana proprio come l’accusato.
La storia è ben narrata, non ci sono tappe mancanti né digressioni inutili, l’obiettivo è quello di parlare del processo che innescò l’effetto domino di denunce e così è stato fatto; questo anche per merito della sceneggiatura di Susannah Grant che non perde mai il nocciolo della questione, senza annoiare o cadere nel puro nozionismo.
La HBO regala un film fresco, perché la storia è recente, siamo negli anni ’90, ma anche attuale, perché adesso come non mai, trovata la forza per denunciare, le donne stanno parlando anche per quelle che ancora sono bloccate da mariti, datori di lavoro, religione, timidezza, paura o altro.
Le violenza sessuali sono ben visibili sia sul corpo delle vittime che nelle loro menti segnate irreversibilmente. Il fatto che si sottovaluti l’argomento o che non ce ne si interessi proprio è una grave mancanza da parte di chiunque, uomini o donne che siano, perché la mano della violenza colpisce senza guardare in faccia nessuno, non pratica discriminazioni e così anche noi dovremmo agire nei suoi confronti.
Non dovremmo dividerci in svariate fazioni per fronteggiarla, ma stare compatti, perché chiunque venga colpito è prima di tutto vittima e poi donna o uomo. La sua cecità non deve vincere contro le nostre differenze, che a volte la alimentano, ma anzi dovremmo usare il suo stesso punto di forza per vincerla.