CONOSCIAMO DAVVERO DANTE ALIGHIERI?

Nei programmi scolastici delle superiori tra i numerosi autori trattati compare, nel triennio, Dante e la sua Commedia. Ma possibile che sia l’unico capolavoro? Assolutamente no.

A questo autore sempre così moderno sono da attribuire diverse opere di rilievo: Convivio, Vita Nova, Il Fiore e Detto d’Amore, La Quaestio de aqua e terra, Egloghe, varie Epistole, Le rime e, per ultimo, ma sicuramente non di minor valore, il De Vulgari Eloquentia.

Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 1321) è stato un poeta, scrittore e politico italiano. È considerato il padre della lingua italiana e nel De Vulgari Eloquentia si pone l’obiettivo di trovare un volgare illustre, aulico, cardinale e curiale. Analizza vari dialetti che percorrono la penisola italiana condannandoli, compreso il fiorentino.

Eppure ci è sempre stato detto che Dante utilizza, nella stesura dei suoi scritti, o il latino, quando vuole arrivare ai dotti e ai letterati e per tematiche auliche, oppure il volgare, corrispondente al fiorentino, con presenza anche di latinismi, grecismi e in minima parte altri dialetti.

E se vi dicessi che la lingua di Dante, prima anche del latino e del fiorentino, è stato il bolognese?

Il Sonetto della Garisenda è il testo più antico di Dante, in cui non vi è spaziatura e nessun segno di interpunzione. Lo si è ritrovato nel registro del notaio bolognese Enrichetto delle Querce, il quale copiava da una trascrizione molto vicina all’autografo. Quindi è trascritto in un registro pubblico, in cui i notai scrivono regolarmente gli atti dal 1265, dove non possono lasciare spazi bianchi e quindi si aggiungono poesie, filastrocche, ecc…

Prendono il nome di Memoriali Bolognesi.

 

Versione Bolognese (B31, del 1287)                                                    Versione trecentesca toscana

No me poriano zamay far emenda                                                        Non mi poriano già mai fare ammenda

de lor gran fallo gl’ocli mey, set illi                                                        del lor gran fallo gli occhi miei, sed elli

non s’acechasero, poy la Garisenda                                                      non s’accecasser, poi la Garisenda

torre mirano cum li sguardi belli,                                                         torre mirano co’ risguardi belli,

e non conover quella (ma lor prenda)                                                  e non conobber quella (mal lor prenda)

ch’è la maçor de la qual se favelli:                                                         ch’è la maggior de la qual si favelli:

perzò zascum de lor voy che mi ‘ntenda                                               però ciascun di lor voi’ che m’intenda

che zamay pace non farò con elli;                                                          che già mai pace non farò con elli;

poy tanto duro, che zò che sentire                                                         poi tanto furo, che ciò che sentire

dovean a raxon senza veduta,                                                                 doveano a ragion senza veduta,

non conover vedendo; unde dolenti                                                      non conobber vedendo; onde dolenti

sun li mey spiriti per lo lor falire,                                                          son li miei spirti per lo lor fallire,

e dico ben, se ‘l voler no me muta,                                                         e dico ben, se ‘l voler non mi muta,

ch’eo stesso gl’ocidrò, qui scanosenti.                                                   ch’eo stesso li uccidrò, que’ scanoscenti.

La prima versione, quella bolognese, è la trascrizione di Avalle dai Memoriali Bolognesi e la seconda, quella fiorentina, è l’edizione critica di Contini ripresa da un codice, appunto, fiorentino. Ci sono differenze fonetiche sostanziali tra la versione di Contini e quella di Avalle. Dove il fiorentino ha le affricate palatali, il bolognese ha le affricate dentali (“zamay” – “già mai”).

Ma quale delle due si avvicina di più all’originale? Quale inserire nell’edizione critica? La risposta si ottiene con Domenico De Robertis (1921-2011), filologo e allievo di Contini, che sceglie di mettere a testo la versione bolognese, ipotizzando che Dante l’avesse scritto con quella grammatica e rappresenta l’edizione critica usata fino ad oggi per le Rime.

Il primo testo di Dante, il Sonetto della Garisenda, è stato scritto a Bologna, luogo in cui l’autore ha studiato. Lo ritroviamo in un documento notarile del 1287 di Enrichetto delle Querce poiché, non potendo avere spazi vuoti l’atto notarile, il copista trascrive un sonetto di Dante ancora studente universitario. Su questo registro troviamo anche delle poesie dei siciliani e degli stilnovisti. Il lessico è molto specifico e appartenente al mondo giuridico ed è come se Dante avesse una contesa aperta con i propri occhi, i quali, pur vedendo, non si accorgono di ciò di cui si dovrebbero render conto anche senza vedere.

È inevitabile intravedere in questi versi l’importanza della figura del notaio, che ricorrerà anche nel Canto XXIV del Purgatorio, in cui al notaio Bonagiunta Orbicciani verrà affidata la definizione di Stilnovo.

Dunque, dopo secoli in cui la poesia è stata letta con la lente del fiorentino possiamo affermare che Dante ben aveva presente la varietà linguistica dell’Italia e che il Sonetto della Garisenda è il primo sonetto scritto dell’autore in bolognese per i bolognesi, di cui l’edizione critica di De Robertis ha sfatato il mito della fiorentinità.

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