Storie alle spalle

di Federica Tosadori

 

«I ragazzini non dovrebbero sentirci parlare così!»

«Siete voi che state esagerando, noi stiamo semplicemente rivendicando ciò che è nostro e che ci spetta di diritto!»

«Da nessuna parte sta scritto che quella stanza all’ultimo piano debba essere vostra!»

«Per usucapione…»

«Cazzate!»

La riunione di condominio andava avanti così da due ore, e per due ore sarebbe andata avanti ancora seguendo la stessa logica di botta e risposta inconcludente. Erano principalmente due le famiglie che si contendevano quella famigerata stanza all’ultimo piano della palazzina di periferia in cui vivevano almeno cento persone. Ma in realtà era un forte desiderio di tutti ottenerla, per questo sarebbe stato impossibile trovare un accordo. Da anni la stanza era rimasta inutilizzata. Talvolta alcuni inquilini di nascosto, in silenzio, nella notte o nelle prime ore del mattino vi si erano recati con scatoloni di roba vecchia: quella stanza era il deposito, la soffitta, la cantina, il locale pattumiera di tutti i condomini e il luogo segreto, ricolmo di misteri, dei figli dei suddetti. Tutti i bambini del palazzo ci erano entrati almeno una volta nella loro decennale vita e tutti, nessuno escluso, vi avevano trovato dei tesori da custodire con cura, dei misteri “adulteschi” da svelare, oppure semplicemente mostri oscuri da cui scappare. C’era chi vi era ritornato molte volte, chi invece ne aveva annusato l’aria umida e stantia di vecchi segreti una volta soltanto, trovando bastante l’inquieta sensazione di ambiguità e inganno provata.

La cosa più assurda era l’incomprensibile presenza di un’automobile. In quell’ultima stanza, all’ultimo piano, dell’ultimo palazzo di periferia, dell’ultima cittadina della provincia c’era un’automobile. Come ci fosse arrivata nessuno poteva dirlo; certamente qualcuno aveva dovuto montarcela dentro, perché per quanto fosse piccola non sarebbe potuta passare da nessuna porta, scala o ascensore possibili. Era un mistero, come tutto in quella stanza. Spesso vi comparivano oggetti davvero strani che nessuno ammetteva di averci mai portato. I bambini giuravano di vedere, all’improvviso dal nulla, spuntare oggetti sugli scatoloni ammucchiati, sui tavolini di legno vecchio; si voltavano e li trovavano lì appoggiati in perfetto equilibrio: oggetti che un attimo primo non c’erano.

Il vecchio e unico abitante di quella stanza era stato un inventore: un solitario, burbero, geniale inventore. La macchina doveva averla costruita lui. Alla sua morte quell’ambiente era stato ereditato dal figlio primogenito che non osò mai nemmeno metterci piede. Anche lui però era accidentalmente morto e la camera era rimasta senza proprietario. Si trattava di un luogo evidentemente oscuro, sospetto ed equivoco – tanto che molti avevano proibito ai propri figli di passarci il loro tempo dopo la scuola – eppure praticamente nessuno era intenzionato a lasciarla in mano al proprio vicino di casa. Gli adulti discutevano, ma erano i bambini a vivere con più trepidazione e tensione lo svolgersi di quelle vicende. La stanza era loro. Non dei genitori, non dei parenti dell’insano inventore, non degli oggetti inspiegabili che vi comparivano: era la loro stanza. Ma anche tra i ragazzini vi erano delle lotte intestine. Tra quelli che vi passavano più tempo vi erano principalmente due gruppi: Piero e Carlotta da una parte e Benedetto, Edoardo e Giovanni dall’altra. Questi ultimi tre erano organizzati proprio come una vera banda criminale. Dettavano le regole d’ingresso minacciando coloro che non le rispettavano. Erano tre bulli senza possibilità di salvezza e nessuno osava denunciarli alle autorità adulte, per paura di essere poi punito. Ma Piero e Carlotta erano diversi. Con coraggio affrontavano a testa alta il trio, sapendo che la banda non aveva alcun diritto di imporre doveri. Le lotte tra i bambini si facevano giorno dopo giorno sempre più acerbe, ora che la stanza era così contesa.

«Dobbiamo fare qualcosa!» sputacchiò Benedetto agli amici. «Cosa possiamo fare?» chiese un po’ più timidamente Edoardo. «Dobbiamo fare qualcosa che faccia capire a tutti chi comanda qui!» sentenziò Giovanni, seduto su una scatola di cartone sfondata. «…Qualcosa di spaventoso!» decise infine Benedetto, che doveva avere sempre l’ultima parola su tutto.

«Sento che sta per succedere qualcosa di brutto» bisbigliò Carlotta all’orecchio di Piero. Piero adorava quando Carlotta gli si faceva così vicino, ma non aveva ancora capito perché. Questa volta sembrava davvero preoccupata e lui si sentiva tanto impotente quanto desideroso di aiutarla. «Perché dici così?» le chiese. «Sono nella stanza da tutta la mattina e non ci sono mai stati così tanto tempo; stanno certamente confabulando qualcosa… qualcosa contro di noi, o contro tutti, ma sento che sarà qualcosa di pericoloso». Piero era inquieto. Sapeva che l’amica aveva ragione, era sempre stata molto intuitiva e la situazione si faceva davvero complicata.

Quella stessa notte, dopo l’ennesima riunione di condominio, per tutti i piani del palazzo risuonò un urlo agghiacciante e poi le parole gridate: «Mia figlia, mia figlia, la mia bambina, Carlotta, Carlotta dove sei? È sparita!». Piero sentì e si catapultò fuori dalle coperte terrorizzato. Si mise a cercare l’amica insieme ai genitori e a tutti i condomini. “Non possono portarmi via Carlotta! Quei suoi sussurri al’orecchio potrebbero mancarmi più del mio stesso respiro” pensava disperato.

«È inutile che cerchi, Pieruccio!» sentì ridersi alle spalle. Era Benedetto, a capo del trio. «L’abbiamo noi, la tua Carlottina! E non la rivedrai molto presto: è nella macchina!» «No! Non potete averlo fatto sul serio! No! Ditemi che non l’avete fatto, vi prego!» Piero era disperato e bianco come un cadavere. I tre criminali risero: «Dovevamo dimostrare quanto fosse pericolosa quella stanza, altrimenti qui tutti avrebbero continuato a litigarsela; e invece devono capire che quel posto è rischioso, quindi deve rimanere a noi, perché solo noi possiamo gestirlo. Quando scopriranno che Carlotta è nella macchina e si renderanno conto di che cosa questo significhi, nessuno vorrà più metterci piede!» risero ancora. «Siete degli imbecilli» Piero sentiva che stava piangendo: non poteva farne a meno.

Nessun essere umano aveva mai osato entrare in quell’auto e c’era solo un unico motivo: era una macchina del tempo, o qualcosa del genere. Forse sarebbe stato più adeguato dire che era una macchina dello spazio. I bambini, e solo i bambini, lo sapevano. Avevano inizialmente provato con gli oggetti: le cose che venivano inserite nell’abitacolo dell’autovettura svanivano, per poi ricomparire, chissà dove, chissà quando in altri luoghi della stanza. Ma non tutto era riapparso. E finora nessuno sapeva cosa sarebbe successo con degli esseri umani.

Piero si precipitò nella stanza. Avvertiva il trambusto nei piani sottostanti eppure lì dentro pareva regnare una calma assoluta. Si mise a gridare il nome dell’amica: «Carlotta! Carlotta! Ti prego rispondi! Dimmi che ci sei, che sei qui da qualche parte». Il silenzio rispose al suo posto. Non aveva molta scelta Piero. Si avvicinò al finestrino buio della vettura. Dentro non si vedeva nulla, Carlotta non c’era più. Trattenendo il respiro come se stesse per immergersi in un abisso infinito, Piero aprì la portiera e senza pensarci due volte entrò richiudendosela alle spalle.

La porta della stanza fu sbarrata e nessuno tentò di entrarci mai più, o accennò a rivendicarla. Le famiglie di Piero e Carlotta si trasferirono, distrutte. Benedetto, Edoardo e Giovanni crebbero, divennero tre ombrosi adolescenti, poi tre problematici giovanotti. Rimasero amici fino ai vent’anni e poi lentamente si allontanarono senza rendersene nemmeno conto. Eppure senza saperlo tutti e tre divennero delinquenti fatti e finiti, come se fosse da sempre stato il loro destino. Benedetto finì a gestire lo spaccio nel suo quartiere, Edoardo si dedicò alla prostituzione e Giovanni divenne membro di un’associazione di truffatori. Tutti e tre erano convinti di avere un motivo ben valido per essere diventati “così”: raccontavano che erano rimasti traumatizzati da bambini per una singolare tragedia in cui si erano trovati coinvolti senza troppa consapevolezza. Da quel momento avevano capito di essere persi, senza più alcuna possibilità di salvezza, per questo era stato inevitabile comportarsi da criminali. Ovviamente nessuno credette mai a questa storia. Eppure loro non smisero mai di giustificarsi: tutti i migliori delinquenti hanno una storia assurda, triste e poco credibile alle spalle.

 

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