“Vi sono suicidi invisibili. Si rimane in vita per pura diplomazia, si beve, si mangia, si cammina. Gli altri ci cascano sempre, ma noi sappiamo, con un riso interno, che si sbagliano, che siamo morti.”
“Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale
io lo faccio che sembra un inferno
io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho vocazione”.
– Sylvia Plath
“La bellezza del mondo ha due tagli,
uno di gioia,
l’altro d’angoscia,
e taglia in due il cuore”
– Virginia Wolf
“Come hai potuto scivolare giù da sola nella morte
che ho desiderato così tanto e così a lungo,
la morte che tutte e due dicevamo di aver superato,
… la morte di cui parlavamo tanto, a Boston,
mentre ci scolavamo tre martini extra dry.”
– Anne Sexton
Una sera di settembre per cercare qualcosa nella borsetta, tirai fuori un libro contenente tutte le poesie di Sylvia Plath. Erano 300 poesie e passa ma non mi pesava per niente nella borsa, poiché la gioia di averlo finalmente tra le mani superava qualsiasi tormento. Subito alcuni miei amici furono attratti dalla sue mole esorbitante e me lo strapparano dalle mani. Rimasero inorriditi quando scoprirono come avvenne la morte della poetessa americana e me lo restituirono storcendo il naso.
Sylvia si svegliò una mattina, quasi all’alba e strusciando con la sua camicia da notte si diresse in cucina. Aprì la credenza e prese due bicchieri, nei quali versò del latte fresco. Li afferrò entrambi, e con molta grazia, senza fare rumore, li appoggiò sui comodini di fianco ai letti dove dormivano angelici i suoi bambini. Frieda aveva tre anni, Nicholas uno. Poi Sylvia, ritornò in cucina. Aprì il forno, lo accese e si lasciò morire. Era la seconda volta, che la poetessa tentava il suicidio, questa volta riuscito. Ne parlò a lungo con la sua amica, anche lei poetessa, Anne Sexton. Entrambe avevano cercato di togliersi la vita da giovani. Se lo confidarono in un bar di Boston, sorseggiando un martini extra dry, come ricorda Anne in questa toccante poesia:
Come hai potuto scivolare giù da sola nella morte
che ho desiderato così tanto e così a lungo,
la morte che tutte e due dicevamo di aver superato,
… la morte di cui parlavamo tanto, a Boston,
mentre ci scolavamo tre martini extra dry.
Undici anni dopo, nell’ottobre del 1974 si suicida anche lei, asfissiandosi con i gas di scarico della macchina. Entrambe si lasciano alle spalle dei figli, ancora bisognosi di loro.
Hanno placato un mostruoso e abominevole male che insidiava il loro corpo e la loro mente da quando avevano vent’ anni.
Possiamo sentire la voce di Plotinio, che nelle “operette morali” di Leopardi, imbecca Porfirio di essere egoista, di non pensare al grande dolore che provocherebbe la sua morte agli amici e ai parenti. Non sappiamo con esattezza se poi Porfirio si tolse la vita o meno, ma sappiamo con certezza che le due poetesse lasciarono questa vita e i loro cari.
Può una persona essere così egoista? E’ questo che si chiesero i miei amici leggendo la biografia della Plath. Eppure noi non siamo al corrente di quanto le due donne fossero lacerate e sole. Entrambe soffrivano di disturbi bipolari e si rifugiavano nello scrivere, dove riversavano ogni dolore. Ma la poesia non fa miracoli, ci sono giorni in cui le parole tardano ad arrivare, in cui le nostre opere vengono rifiutate o in cui noi non siamo più orgogliosi di quello che creiamo. E così si entra nell’oblio del vuoto.
È questo che dobbiamo fare, leggere le loro poesie e cercare di comprendere come queste donne si sentivano, come vivevano e perché hanno fatto quello che hanno fatto. Non siamo qui per condannare. Questa società si trova troppo spesso a tendere l’indice contro gli altri, invece che verso se stessa. Non siamo più in grado di stare in silenzio, di stare ad ascoltare o di leggere una poesia. Poiché come dice Cyril Connolly: “Ci sono molti che non osano uccidersi per paura di quello che diranno i vicini.”
A cura di Anita Mestriner