Di Andrea Ancarani
Manca poco meno di una settimana al referendum consultivo in Inghilterra per la permanenza o meno nell’Europa. I toni sono molto accesi da entrambi i fronti, per quello che sembra essere un test per la tenuta del governo Cameron e per quella dell’Europa stessa.
Sebbene il Premier inglese non abbia legato il risultato del referendum del 23 giugno al destino del proprio mandato, una ripercussione non potrà non esserci. Data inoltre l’esposizione di Cameron come aperto sostenitore della permanenze del Regno Unito nell’UE, a detta di molti analisti politici le dimissioni sarebbero l’effetto più immediato del “leave”.
Sul fronte opposto un’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea creerebbe un precedente storico (l’unico esempio è la Groenlandia che nel 1982 approvò un referendum per l’uscita dall’UE). Infrangerebbe così l’aurea di irreversibilità del processo di unificazione, scompaginando le carte in tavola e aprendo a nuovi possibili scenari come il rafforzamento dei partiti pro-exit presenti in Europa.
Si è parlato molto anche delle possibili conseguenze dal punto di vista economico e si sono fatte previsioni apocalittiche sia dal fronte “Vote Leave” sia da parte dei “Remain”. Alcuni, come Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, hanno premonito la “fine della civiltà occidentale in caso di Brexit”. Il primo, tramite il suo coordinatore e principale sostenitore Nigel Farage, avverte sulle catastrofiche conseguenze di un voto favorevole alla permanenze della GB in Europa come invasione di immigrati, perdita della democrazie e altro ancora.
Spot elettorali a parte, è indubbio che qualunque sarà il risultato del voto del 23 giugno i rapporti economici e politici con l’Europa subiranno, almeno formalmente, un contraccolpo. Tuttavia sono da scartare le ipotesi di tsunami economico e di fine della civiltà. Questo perché il referendum su Brexit ha un valore principalmente politico, vòlto a ridefinire gli assetti della politica britannica. Nulla di più.
Infatti, dal punto di vista economico i risultati più eclatanti possono essere i punti persi in Borsa, la svalutazione della sterlina (che ha già perso il 5/6% prima del voto e potrà perdere ancora circa il 10%) e la ricontrattazione degli accordi commerciali. Ma, anche qui, nulla di più.
La svalutazione della sterlina favorirà il disavanzo delle partite correnti che andrà a compensare la caduta degli investimenti esteri almeno nel breve termine. Mentre molti analisti sostengono che i listini potrebbero addirittura beneficiare dell’indebolimento della sterlina. Infatti le società incluse nel FTSE 100 devono il 70% dei propri profitti alle vendite all’estero che risulterebbero favorite da una valuta debole.
Sul fronte delle politiche commerciali tutti i Trattati non saranno più applicabili al paese a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o 2 anni dopo la sua notifica (art 50 UE sulla clausola di recesso). È logico supporre che i 2 anni che trascorreranno tra il referendum e la cessazione della validità dei Trattati saranno impiegati per riconsiderarne e stabilirne di nuovi. È un processo impegnativo e lungo. Tuttavia non sconvolgerà le regole già vigenti in ambito commerciale visti gli interessi di molte multinazionali britanniche e le relazioni commerciali con aziende e paesi di tutto il mondo che vanno oltre semplici clausole di trattati.
Insomma, qualunque sarà l’esito della consultazione di giovedì prossimo, vedremo cambiare ben poco. Tempesta mediatica a parte, sarà meglio che l’Europa aumenti i propri sforzi nell’affrontare le molte questioni aperte e fondamentali per la sopravvivenza dell’Europa stessa. Solo con i fatti si salva l’Unione, non con la fedeltà incondizionata.
Credits: