Di Andrea Ancarani
A circa una settimana dal voto in Austria in cui l’ecologista Alexander Van Der Bellen è riuscito a sconfiggere per un soffio l’ultranazionalista Norbert Hofer (50,3% contro 50%) e all’indomani della nomination repubblicana di Donald Trump per la Casa Bianca, possiamo vedere come il voto di protesta sia diventata ormai una vera e propria realtà, in politica. Se da un lato è vero che l’establishment dominante scricchiola ma non crolla sotto i colpi del voto anti-sistema, dall’altro non si possono ignorare i milioni di elettori austriaci, e di tutta Europa, che esprimono il dissenso verso i propri governi e le istituzioni europee. In Germania il partito xenofobo e anti-Euro Alternative für Deutschland (nato appena 3 anni fa) guidato Frauke Petry, ha superato la SPD nelle elezioni federali di marzo in ben due Länder ed è dato, dagli ultimi sondaggi, al 14% in forte crescita. In Francia il Front National alle ultime regionali (6 e poi 13 dicembre 2015) pur essendo stato respinto dal “voto-utile” al ballottaggio, ha ottenuto 6,7 milioni di preferenze concentrate soprattutto nelle periferie e nelle città della Francia profonda. Non solo, mancano ormai davvero pochi giorni al referendum del 23 giugno e vi è grande tensione in Inghilterra dal momento i sondaggi vedono gli antieuropeisti, guidati da Nigel Farage, combattere per la prima volta ad armi pari con gli europeisti convinti in uno scontro che è destinato a creare, e che ha già creato, molto scompiglio nelle sale di borsa come nei parlamenti dei governi europei.
Ma se il voto di protesta è spesso considerato essere frutto di un populismo destinato ad essere più un fuoco di paglia, a creare un forte quanto breve e instabile consenso, non si può negare la radice comune a tutti i movimenti: il forte malessere sociale, l’insoddisfazione di una parte del popolo europeo che si vede emarginato, escluso dal benessere di cui l’Europa doveva essere portatrice e che così si unisce in un coro che dà “vigore alle voci a favore del populismo e della frammentazione” (Chrisitine Lagarde, Presidente FMI). Il voto di protesta è quindi espressione della “pancia” delle nazioni, di coloro che alla razionalità e ai giochi politici, propri della “testa”, frappongono le necessità di tutti i giorni.
Tutto questo rende però il terreno del populismo molto scivoloso, infatti spesso si rischia di incappare in alcune trappole, come etichettare come “rappresentanti del popolo” alcuni leader politici che, nella sostanza dei fatti si sono rivelati tutt’altro che ascoltatori della voce dei propri elettori. È il caso, quest’ultimo, di Alexis Tsipras, presidente greco, eletto dal popolo per combattere l’Austerity e l’Europa delle lobby, finito per appoggiare le istanze di questi ultimi nascondendo manovre di depauperamento delle risorse greche dietro allo spauracchio del “siamo perduti senza l’Europa” e dell’imminente ripresa non ancora palesatasi.
Il “populismo” assume dunque molte sfumature passando dal definire l’espressione del malessere sociale di una parte della popolazione, a epiteto con cui vengono etichettati tutti i leader che fanno propria la retorica del popolo e che, alla fine dei conti, non sempre si rivelano rispettosi delle istanze dei propri elettori cadendo preda delle dinamiche dell’establishment che combattevano fino al giorno prima.
Ecco che, all’indomani del voto delle regionali, nel nostro Paese si torna a parlare di voto di protesta, di dissenso, spesso con toni accesi e denigratori da campagna elettorale per cui l’obiettivo è smontare le argomentazioni degli avversari “populisti” quando, invece, bisognerebbe prestare un orecchio alla voce del popolo consci che solo risolvendo il malessere si evitano estremismi incontrollabili. D’altro canto, “l’alternativa è che quei cittadini che si sentono esclusi dalla politica, comincino a pensare di poter fare a meno della democrazia e della politica stessa” (La Stampa, 3/06/2016), e si sa, la testa senza il corpo non va da nessuna parte.
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