Un giorno ero in un cinema d’essai per non ricordo più quale film, in una di quelle sale da venti poltroncine scarse relegate in qualche buio scantinato, ma preziosissime per chi, una volta tanto, voglia concedersi un film un po’ più “di nicchia” rispetto alle solite megaproduzioni. In questi ambienti, solitamente ameni, è però facile incappare in personalità tra l’hipster e il grottesco, capaci di passare ore e ore di fronte al fermo immagine in bianco e nero di un lavandino, riuscendo a trovarvi profondissimi riferimenti escatologici. Prima di liquidarmi sdegnato al mio apprezzamento su Mad Max – “cosa? è artefatto, venale, manca di lirismo” – il curioso ventenne, credendomi un’anima affine, mi ha confidato con dolore la sua avversione per i film sonori, colpevoli di aver insozzato con inutili chiacchiere la purezza dell’immagine cinematografica. E meno male che quel giorno non indossavo la maglietta di Tarantino…
In omaggio a quel curioso, nostalgico figuro, che mi immagino rannicchiato di fronte a un minuscolo tubo catodico e sicuramente lontano dalle tentazioni del web, mi permetto di stilare una lista (per forza di cose parziale) dei film o registi che più hanno fatto del chiacchiericcio il loro punto di forza. Così, per il gusto dell’accanimento.
A chi crede che i dialoghi frenetici siano esclusivi del cinema degli ultimi vent’anni consiglio una gita turistica nella Hollywood degli anni ’30 e ’40, durante i quali, grazie a un regista di primo piano come Howard Hawks, nasce la screwball comedy (“commedia imprevedibile”, per cercare una traduzione decente). La Signora del Venerdì, anno 1940, è l’esempio più lampante: dialoghi frenetici, battute recitate una sopra l’altra, mitragliate di caos verbale registrate contemporaneamente da più microfoni, per una media di 240 parole al minuto (mentre solitamente ci si aggira sulle 150). È un cinema iper-verboso, tutto giocato sugli equivoci e su un uomo (Cary Grant) che cerca in tutti i modi di impedire che la ex moglie (Rosalind Russel) scappi e si sposi con la sua nuova fiamma (Ralph Bellamy), in un intrigo di situazioni assurde, rapimenti, colpi bassi e accuse di omicidio.
Dopo averne celebrato le doti di genio poliedrico già in un altro articolo (QUI), è bene tornare a parlare di Orson Welles, che nell’anno immediatamente successivo all’uscita de La Signora del Venerdì fa uscire dal cilindro magico Citizen Kane (da noi Quarto Potere), film destinato a segnare la storia del cinema come pochi altri. C’è una scena particolarmente interessante: inquadrature sovraccariche sia dal punto di vista visivo che sonoro, torme di personaggi che danzano, ridono, esultano grottescamente in un costante horror vacui. Se Hawks, ben più ancorato al cinema classico rispetto a Welles, usa i dialoghi-raffica per stupire e divertire, l’enfant prodige di Kenosha vuole disorientare, confondere, sovraccaricare la mente di chi guarda. Guardare un film di Welles è come passeggiare per la via del mercato di una città che non conosci: un’esplosione di voci, stralci di conversazione, venditori urlanti, invitanti specialità esotiche in mostra sui banchi, mentre ti affiora nella mente la spiazzante consapevolezza che non potrai assaporare tutto in una volta sola.
Non è un dialogo, ma che importa? È Woody Allen, il maestro del chiacchiericcio. Se c’è qualcuno che ha costruito la sua fortuna sulla possibilità di “ascoltare” al cinema quello è lui, e non solo per l’importanza che la musica riveste nei suoi film, ma proprio perché la sua voce, il suo modo di porsi sono diventate negli anni un’icona riconoscibile e codificata. Abilissimo sia come regista (chi lo nega probabilmente non ha mai visto Harry a Pezzi, Manhattan…) che come sceneggiatore/comico, è innegabile che nella cultura popolare Allen sia conosciuto universalmente per le sue battute.
“Che te lo dico a fare?” direbbe Donnie Brasco. In una lista simile il nome di Quentin Tarantino è scontato come il simpaticone che urla subito “cinquina!” a una tombolata. Che si parli del significato di Like a Virgin di Madonna come nell’intro de Le Iene, della filosofia dei supereroi o dei massaggi ai piedi come in questo estratto di Pulp Fiction, i migliori dialoghi tarantiniani hanno sempre degli elementi in comune: sono lunghi, sopra le righe, e totalmente inutili ai fini dello sviluppo della trama. Nei film di Tarantino un criminale può uccidere un ragazzo a sangue freddo, salvo poi salire in macchina e discutere per cinque minuti su quale sia l’hamburger più buono. Siamo in pieno postmodernismo, e il dialogo, svincolato da ogni utilità pratica – a cosa mi serve sapere che Mr. Pink de Le Iene è contrario a dare mance? – urla a gran voce il proprio diritto di divagare, liberarsi dai vincoli della trama, espandersi all’infinito. In sostanza, di intrattenere.