Un esame a breve, un colloquio di lavoro, una gara sportiva molto importante, un’aspettativa forte sulle spalle, raffreddore, febbre, sbalzi di pressione, cali di zuccheri, dolori: sono tutti casi in cui, almeno dal punto di vista del nostro corpo, si è esposti a condizioni di imprevedibilità e, almeno parziale, incontrollabilità. Queste due parole riassumono la definizione moderna della usatissima parola stress.
Questi stimoli vengono elaborati a livello di sistema nervoso centrale, che modula e attiva risposte vegetative identificabili almeno in parte anche dall’esterno. La maggioranza delle risposte si origina in maniera inconscia. La prima reazione, più veloce viene veicolata dalle cellule nervose: protagonisti sono i neurotrasmettitori adrenalina e noradrenalina, che attraverso il sistema ortosimpatico modificano stringendo o allargando i vasi, le aree di preferenza per la circolazione del sangue, distribuendo più ossigeno e nutrienti, ad esempio, a cuore e muscolo scheletrico, togliendone al sistema digerente, che lavora meglio a riposo (come ricordatoci dal consueto abbiocco postprandiale). In un secondo momento (minuti), nell’ipotalamo, centro di controllo, fra le altre cose, di fame sete e sonno, viene prodotto un fattore di rilascio che stimola la ghiandola ipofisi, anch’essa situata alla base della scatola cranica, a produrre l’ormone corticotropina, che immesso in circolo va a stimolare i surreni a produrre cortisolo.
Questa è la sostanza che agisce più fortemente in questi tipi di situazione, al punto da essersi meritato il titolo di ormone dello stress. Alcuni suoi effetti sono intuitivamente legati alle necessità di un organismo stressato: l’aumento degli zuccheri (glucosio) in circolo ad esempio. Curioso pare invece il fatto che fra i suoi effetti ci sia anche un’inibizione del sistema immunitario, al punto che un suo simile, il cortisone, viene usato contro le reazioni allergiche e di ipersensibilizzazione. Il senso biologico in natura di questo effetto non è ancora del tutto chiaro: perché diminuire le difese, assumendosi il rischio che la causa di stress possa essere anche, per esempio, un’infezione? Certo questo effetto spiegherebbe una parte dei malanni psicosomatici.
Altrettanto allarmante pare l’azione del cortisolo sui neuroni dell’ippocampo, area cerebrale sede dei circuiti di memorizzazione. Misurazioni effettuate su pazienti con Sindrome da Stress Post-Traumatico (PTSD) e su depressi cronici hanno rilevato, in concomitanza con elevate concentrazioni plasmatiche dell’ormone, un minore volume ippocampale. Sembra dunque che il cortisolo, in basse concentrazioni o per un tempo limitato, inibisca parzialmente e reversibilmente i circuiti mnestici (forse perché non si conservi troppo il ricordo della situazione spiacevole?), fatto che in caso di concentrazioni elevate e continue (situazione che si verifica anche nella patologia chiamata sindrome di Cushing) diviene un’atrofia irreversibile.
Possono queste inibizioni transitorie essere tanto forti da essere usate come scusa per i vuoti di memoria durante gli esami?
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