Definire cosa sia il giornalismo sportivo nella sua più intima essenza è cosa né semplice né univoca.
Abbiamo tutti in mente che cosa un articolo di tema politico debba presentare e come si snodi nel farlo, così come conosciamo i connotati di un pezzo di carattere scientifico, medico o di cronaca.
A seconda dei casi si passa per analisi più o meno ampie, ci si addentra in tecnicismi o volutamente si tralasciano, si utilizza un linguaggio calibrato al millimetro sulla preparazione del destinatario.
Campi quali la storiografia vedono saldi paletti a contornarla addirittura dall’epoca classica della Grecia antica, con i vari Erodoto e Tucidide, lavando successivamente i panni nel Tevere grazie all’opera di illustri viri – talvolta più avvezzi alla daga che alla penna – quali ad esempio Giulio Cesare col suo De bello gallico.
Il giornalismo sportivo, al contrario, presenta referenze né così alte né così antiche, essendosi definito all’incirca da un secolo a questa parte, ovvero da quando l’uomo poté essere meno angosciato dall’assillo della pagnotta quotidiana potendosi permettere il salvifico transfert domenicale dello sport.
Di componimenti dei grandi lirici greci su corridori o discoboli ne abbiamo, é vero; del resto le prime Olimpiadi a quell’epoca risalgono.
Si trattava tuttavia in quei casi di poesia, rifinita da metri e schemi fissi: nulla in comune con l’odierno trattare di sport.
Pensando al giornalismo sportivo si rischia di cadere in un facile errore, del resto giustificato: articoli contraddistinti da un italiano pop, scritti generalmente male, senza alcun tipo di rimando storico o letterario (se non a quelli più immediati nel tempo e sulla bocca di tutti), con analisi spesso e volentieri approssimate e superficiali.
D’altronde basterebbe aprire uno qualsiasi tra i nostri più diffusi quotidiani sportivi e presto capiremmo; naturalmente senza offesa né per i quotidiani né per i loro lettori.
Ci fu tuttavia un tempo glorioso -mitologico direi- in cui la lettura di un articolo sportivo poteva costituire uno tra i più aulici incontri con la lingua italiana; prose forgiate dallo studio della cultura classica, innalzate dal confronto con la storia, legittimate dalla conoscenza filosofica.
Personalmente, in poche altre situazioni ho provato un così enorme piacere come nel leggere il grande magister della scrittura sportiva in Italia, il pavese Gianni Brera.
La differenza tra quanto fu ieri e quanto è oggi la spiega in poche parole l’illustre schietta firma di Repubblica Gianni Mura, anch’egli da inserirsi nell’Olimpo delle “penne sudate”: “Un tempo caratteristica fondamentale per poter scrivere in un giornale era essere bravi in italiano. Oggi, al contrario, questa é l’ultima cosa che conta”.
Insomma, si sono aperte scuole su scuole di giornalismo, si tengono master e seminari, ma non si é più capaci di scrivere.
I motivi di questo impoverimento sono molteplici, al più dovuti al cambiamento dei tempi: in primo luogo la televisione.
Fino a cinquant’anni fa, la fetta di pubblico in grado di assistere in presa diretta ad un evento sportivo era assai ridotta, sia per questione di abitudine sia per questione di mezzi.
Fedele proiettore delle gesta degli atleti era perciò la carta stampata, con i giornalisti che divenivano insperati aedi nel esaltare le gesta di un Coppi sullo Stelvio oppure (infingardi e menzogneri!) nel rendere un Best od un Garrincha una modestissima ala di provincia, venuta alla ribalta per il solo fatto che la nebbia ha nascosto i restanti ventuno giocatori sul campo! Gli spazi sul quotidiano andavano pur riempiti, poveri loro.
Una narrazione fiacca, spenta e claudicante non avrebbe di certo creato miti o acceso fantasie: avrebbe lasciato i miseri lettori nella perenne angoscia che il solo sport poteva alleviare.
La televisione ha annullato il potere esclusivo del giornalista sportivo, portando i fatti direttamente nelle case di ciascuno, aprendo alla soggettività del giudizio.
La televisione ha scaturito un’altra conseguenza: essa ha permesso di esprimersi all’uomo di sport qualunque, traslando la diatriba cosiddetta “da bar” negli studi.
Quindi i vari Biscardi e sosia nelle infinite tv locali, fino ai più moderni Pardo, che nei suoi programmi si affida al fine giudizio critico della valletta di turno…
Questi figuri, a mio avviso, hanno rovinato più di ogni altro il linguaggio del giornalismo sportivo, rendendo la discussione una accozzaglia di frasi ad effetto e di vuoti contenuti, espressi nei modi e nella violenza della corrida da talk-show.
Altro fattore causa dell’estinzione di un certo tipo di giornalismo é il web, con i social in testa.
Ancor più della televisione, una piattaforma quale Facebook permette a ciascuno di noi di produrre analisi e riflessioni, il più delle volte provenienti dalla pancia più che dal senno.
Un’altra come Twitter, invece, annulla la capacità di scrittura e componimento in soli 140 caratteri: il che, il più delle volte, non corrisponde nemmeno ad una più attenta riflessione sulle parole da utilizzare!
La gravità di questa possibilità espressiva sta nel fatto che nei social manca una entità valutativa, che giudichi se la nostra visione e -sopratutto- il nostro modo di esternarla, valga effettivamente la pena d’essere letta da altri.
Internet ha annullato quello che un tempo era la gavetta, gli anni ed anni passati nelle redazioni dei giornali ad apprendere il mestiere dai vecchi e quindi essere pronti a plasmare i giudizi con i propri commenti.
Oggi é venuta meno la selezione, la quale permetteva che i soli degni potessero essere pubblicati. Tornando allo sport, è come se dall’oratorio si passasse direttamente alla SerieA.
Riprova di questo nuovo modus agendi é il banale fatto che io sono qui a scrivervi e voi nelle vostre case a leggermi…
Abbiamo ormai perso le grandi narrazioni sportive, le ultime firme degne si stanno purtroppo estinguendo; con una parte, ampia, di colpa che dovremmo imputare anche agli stessi giornali, dato che sempre e comunque la guerra si fa in due.
Serbiamo tuttavia, seppur assopita, la bellezza e la fantasia che il giornalismo sportivo cova nella sua profondità.
L’unicità di un genere che sa essere tragedia o poesia, finissima narrativa o colorita biografia. Un genere che permette il latino così come il dialetto, che non si scandalizza nel trovare tra le sue righe riflessioni etnografiche, geografiche, gastronomiche o psicologiche.
Che passa con disinvoltura dalle mani del ricco signore che langue sugli spalti di Wimbledon, al poveraccio che rincorre fradicio il suo ciclista sulle Alpi.
L’unica forma di prosa che vede come suoi protagonisti biciclette, palloni, pedate, pugni, racchette, salti e corse e le può dipingere come si trattasse di una “presa di Ilio” o di una “leggenda del Piave”.
Io ancora sento mormorare questa splendida essenza.
Talvolta ritrovo alcune righe di assoluta nobiltà stilistica che mi riportano alla mente i grandi scritti dei maestri.
Leggendole me ne compiaccio e, intimamente, spero.
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