di Clara Incerpi
Cosa significa per una donna “sentirsi libera”? Forse scoprire il proprio corpo al punto di diventare scontata?
Credo che la libertà equivalga alla possibilità di essere se stessi sentendosi bene; questo va al di là di mode, vestiti più o meno coprenti, veli e non. Ognuno ha la possibilità di raccontarsi creando un proprio stile, ponendosi al mondo esterno in un determinato modo.
La giornalista e ricercatrice Catherine Cornet ha scritto un articolo per l’Internazionale molto interessante al riguardo. È un viaggio all’interno del mondo della moda musulmana, una riflessione sugli stereotipi ed i significati (spesso discutibili) attribuiti al tanto temuto velo.
La Francia a quanto pare è il primo paese in guerra contro le griffe che propongono accessori e vestiti in accordo con le regole della fede musulmana: ma sono realmente condannabili? Chi può decidere cosa sia giusto o sbagliato per le donne che praticano questa religione?
La ministra della famiglia francese, Laurence Rossignol, commentando il boom della “moda islamica”, ha respinto l’idea che le donne musulmane possano decidere di vestirsi come vogliono. Secondo lei una donna non sceglie MAI di portare il velo.
In opposizione a questa estrema convinzione è intervenuta la presidente dell’Islamic fashion and design council, Alia Khan, donna manager, musulmana e ultra elegante, che ha spiegato che la moda islamica rappresenta un giro d’affari enorme ed è un mercato in crescita esponenziale.
Alia è di origine pachistana ma è cresciuta in Canada; ha riscoperto la religione dei suoi genitori durante un soggiorno di studio in Giordania, dove ha deciso di portare il velo per essere in accordo con l’ambiente generale, conservatore del paese. Essendo un’appassionata di moda ha creato questo consiglio per sostenere i marchi che vogliono proporre accessori islamically correct.
Oggi, residente a Dubai, ha aperto undici uffici nel mondo in due anni.
Le donne alla guida di queste aziende, che piaccia o no, stanno inventando un nuovo stile. Alla fine poi, ognuno è libero di comprare o meno determinati accessori e, soprattutto, di indossarli attribuendogli il proprio significato.
Ci sono molte donne, spiega Alia, ebree, cristiane, o comunque non musulmane affascinate dal velo e felici di indossarlo, per una questione puramente estetica.
“Probabilmente sono gli altri che attribuiscono all’hijab un simbolismo eccessivo, non considerandolo semplicemente un oggetto come tanti”, afferma il filosofo cattolico Camille Rhonat.
Sono molte, oltretutto, le musulmane che non sanno dove andare a comprare i propri vestiti per praticare la loro fede ed essere eleganti allo stesso tempo; il lavoro di determinate aziende è per queste una risposta. Ignorare le loro richieste non ha senso, a meno di non assumere a priori che siano sempre e comunque oppresse, e di ritenere che un numero così alto di persone non abbia una propria volontà. La moda islamica non è una minaccia, al massimo è un’occasione di guadagno per l’industria della moda francese ed europea, dove, paradossalmente, le richieste sono di più che nella stessa Turchia.
Alla fine, cos’è l’emancipazione per una donna? La tirannia della taglia 42?
Nel libro L’harem e l’Occidente, la grande sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi ha scritto pagine molto belle al riguardo: racconta dell’harem in cui è rinchiusa la donna occidentale, quello in cui è costretta ad adeguarsi al canone estetico della magrezza per piacere agli uomini.
Allora cosa allontana maggiormente da questa tanto desiderata emancipazione? Il velo o l’anoressia?
Forse dovremmo imparare a vivere meno di preconcetti e più di sensazioni immediate; capire chi siamo, cosa ci fa stare bene e cosa vogliamo mostrare agli altri di noi stesse, senza nascondersi né dietro ad un velo né dietro ad una taglia eccessivamente piccola.
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