Di Roberta Giuili
Da “La storia delle vittime”
La storia fosse scritta dalle vittime
altro sarebbe, un tempo di minuti,
di formiche incessanti che ripullulano
al nostro soffio e pure ad una ad una
vivide di tenacia, intente d’essere.
Gli inermi che si scostano al passaggio
delle divise chiedono allo sguardo
dei propri occhi la letizia ansiosa
d’essere vinti, il numero che oblia
la sua sabbia infinita nel crepuscolo.
Dei vincitori, ai ruinosi alberghi
del loro oblio, piu’ nulla.
Rimane chi disparve nella sera
dell’opera compiuta, sua la mano
di tutti e il fare che e’ del fare il tenero.
E’ il nostro soffio che gli crede, il dubbio
di perderlo nel numero, tra noi.
Alfonso Gatto (Salerno 17 Luglio 1909- Orbetello 8 Marzo 1976) fu un poeta e scrittore italiano che condusse la sua esistenza letteraria all’interno del capoluogo lombardo, svolgendo una serie di lavori diversi: correttore di bozze, istitutore di collegio, commesso di libreria…
Nel 1936 fu arrestato per antifascismo, nel 1944 si iscrisse al partito comunista e con questo si impegnò nel periodo che seguì la liberazione di Milano. Fu collaboratore delle principali riviste dell’epoca, figura di spicco nella letteratura militante milanese
Sulla sua tomba è inciso il commiato funebre dell’amico Eugenio Montale:
“Ad Alfonso Gatto/ per cui vita e poesie/ furono un’unica testimonianza/ d’amore”
La sua prima raccolta Isola, testimonia la sua vicinanza alla corrente ermetica come ricerca di “assolutezza naturale” in temi che ruotano attorno alla memoria e in una lingua rarefatta e allusiva che gli vale l’inserimento, da parte di Pozzi, nei cosiddetti “petrarchisti dell’ermetismo”. Nel 1950 viene pubblicata la silloge Nuove poesie che sarà destinata a successive divisioni, una delle quali è proprio La storia delle vittime, raccolta delle poesie della resistenza e di ispirazione civile.
In questa poesia l’autore si sofferma sul concetto di memoria, di cui il significato cambia al cambiare della prospettiva: la nostra storia non è scritta dalla somma delle storie delle vittime, perchè se lo fosse avremmo un tempo fatto di minuti, un tempo contato in ogni sua parte, in ogni piccolo, insignificante momento di ogni piccolo, insignificante uomo.
L’uomo è infatti piccolo e insignificante per la grande storiografia, visto come una formica, nonostante sia pieno di tenacia, intento ad essere, e cioè concentrato nella realizzazione della sua parabola di vita. L’uomo è inerme di fronte all’oblio, rimane nella storia, nella “sera” che non è il completo buio dell’oblio, chi è stato artefice di un’opera compiuta e declamata, colui al quale si attribuisce “la mano di tutti”, come se il tempo non fosse fatto di minuti e le grandi imprese di tante mani, ma esistesse solo un tempo di un grande picco e di un grande uomo. La ripetizione della parola numero è un’allusione alla somma delle vittime, a coloro che la storia la fanno da vittime, solo contate ma non ascoltate da chi la storia la racconta a posteriori.