La parola religione ha assunto nel corso del tempo un sapore stantio, poco appetibile. Alla religione si associa immancabilmente l’istituzione, un carrozzone fastoso all’esterno ma fetido all’interno, fatto di morale, di rigide prescrizioni, di politica e di scandali. Essere religiosi, nell’immaginario comune, significa essere devoti, seguire un culto, partecipare ai riti, accostarsi ai sacramenti, spegnere la ragione in modo acritico. Tuttavia si tratta principalmente di una truffa semantica. Molti sono i giovani e gli adulti, specie in Occidente, che si allontanano dalla religione intesa in quel senso lì, cioè come Chiesa, come, in ultima istanza, macchina di potere.
La religione invece è in primo luogo ben altro, è una parola splendida che descrive un moto naturale dell’animo umano, che vuoi o non vuoi abbiamo tutti – e che al più possiamo spegnere, trascurare. In questo stadio è la domanda sul senso, che nulla ha a che fare con le forme ecclesiali. L’etimologia di questa parola è ancor oggi oscura: secondo Lattanzio, nel suo Divinae instituitones, religione è ciò che relega, che unisce profondamente: al di là delle infinite diatribe filologiche è proprio questo il senso che più ci risulta evocativo, e da cui parte anche Raimon Panikkar in una sua bella intervista disponibile su YouTube (“il pensiero del cuore”). La religione è una dimensione dell’uomo, è ciò che ci relega, che ci lega e – aggiunge lui – anche che ci slega. Una religione che non dia spazio alla libertà non è religione: perciò è preferibile la parola connessione. Un uomo isolato sarebbe una contraddizione: l’Io non può vivere senza un Tu, ha bisogno di una relazione, di una religazione all’altro e alla Terra, al Mistero e agli esseri viventi. Lo spirito religioso è lo spirito della libertà non del comandamento.
Panikkar (1918 – 2010) fu un grandissimo teologo e filosofo del dialogo interreligioso: per lui quel dialogo non si atteggiò mai come teorico, ma come costituente della fibra del suo essere. Egli stesso afferma: “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano”. E tuttavia non fu sincretico! Piuttosto riuscì a studiare e vivere la religione proprio come afflato dell’animo, rimanendo ancorato alla sostanza e non alla forma, o riconducendo quest’ultima alla prima.
Nella solenne occasione della sua investitura a Doctor Honoris causa all’Università di Girona il Prof. Josep-Maria Terricabras, padrino del nuovo dottore, ebbe modo di presentarlo e disse di lui, emblematicamente:<<[…] Egli accetta la supremazia della prassi, della vita, di una vita che si dispiega al momento, in ogni momento. “La mia aspirazione – ha confessato – non consiste nel difendere la mia verità, quanto nel viverla”. Il suo pensiero, ispirato dal principio advaita (né monista, né panteista, né dualista) propone una visione dell’armonia che vuole scoprire “l’invariante umano” senza distruggere le diversità culturali che mirano tutte alla realizzazione della persona>>
“La religione non è un esperimento ma un’esperienza di vita per mezzo della quale l’uomo partecipa all’avventura cosmica”. Con questa frase il lettore viene accolto sul sito web che raccoglie qualche notizia su di lui. Frase che si trasforma in autentica commozione ascoltando la sua intervista (su YouTube “La più grande lezione della mia vita”) sull’evento che forse più di tutti lo ha toccato. Quello cioè, semplice, assoluto nella sua essenzialità, di una donna d’età indefinita che s’affaccia lieta alla morte: felice d’esser stata invitata per alcuni fugaci momenti al banchetto della vita. Questa è la religione.
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