Fino all’ultimo giorno della mia vita. In ricordo di Paolo Borsellino

«Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione…la mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano che ama la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria: la civiltà della morte. Nel nome di Cristo, che è vita, via e verità. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno verrà il giudizio di Dio!».

Con queste parole, il 9 maggio 1993 papa Giovanni Paolo II lanciò un’invettiva contro la mafia dalla piana dei Templi ad Agrigento. Fu, come lo ebbe egli stesso a definire, un grido di dolore pubblico. Un anno prima gli attentati che stroncarono la vita dei giudici Falcone e Borsellino.

 

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A ricordare questo momento è Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia in un’esplosione a Palermo in Via D’Amelio 19, il 19 luglio 1992.

Con parole commosse e una voce strozzata dalla rabbia, Salvatore Borsellino ricorda il fratello scomparso, la forza e il coraggio di un uomo che, nonostante l’indifferenza del popolo siciliano, era rimasto a combattere, insieme a pochi, contro la mafia. Salvatore, lo sa bene, suo fratello aveva fatto una scelta diversa da lui. Lui, all’età di 27 anni, aveva deciso di fuggire dalla sua terra. La mafia non era qualcosa che gli riguardava più. Paolo, invece, non si allontanerà quasi mai da Palermo, deciso a voler fare qualcosa, a voler porre una fine alla spirale di male che sembrava inghiottire tutti. E a tutti quelli che gli chiedevano perché fosse rimasto, lui rispondeva: « Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare».

Salvatore Borsellino racconta i retroscena di una vita, segnata dalla dedizione e dall’amore per lo Stato Italiano. Paolo era ben consapevole dei rischi a cui andava incontro quando entrò a far parte del Pool  Antimafia istituito da Rocco Chinnici nel 1980. Dopo la morte di Falcone, Paolo capisce che la sua vita è in serio pericolo, ma nonostante questo decide di continuare la sua lotta; non solo per scoprire le macchinazioni che la mafia stava progettando, ma soprattutto per vendicare la morte del fratello: Giovanni Falcone. Da quel momento in poi, Paolo viene in possesso di informazioni scottanti, di una trattativa  Stato-Mafia.

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E forse, per questa ragione, il giorno della sua morte scomparve anche l’agenda rossa, quella in cui Paolo annotava ogni minimo dettaglio, ogni incontro con una precisione maniacale. Un’agenda che Paolo custodiva gelosamente al punto tale da dormirci insieme la notte. La paura non era tanto che gli venisse sottratta, quanto piuttosto che se uno dei suoi familiari si fosse imbattuto in essa, avrebbe potuto rischiare la vita. E lui questo non poteva permetterselo. Proprio per questo, all’improvviso, ci racconta il fratello, Paolo decise di non accarezzare più i suoi figli, perché pensava che, una volta morto, la mancanza d’affetto sarebbe stata d’aiuto ai figli per superare la perdita. Come può un Padre, pur sapendo di dover morire, privarsi dell’amore dei figli? Perché l’amore di Paolo era troppo grande. E questo Salvatore ammette di non averlo capito fin da subito. Dopo 10 anni di silenzio, decide di portare avanti le speranze e i sogni del fratello. E adesso, lo fa con rabbia e con tenacia. Una rabbia che l’assenza dello Stato ha alimentato.« La speranza», dice Salvatore,« l’avevo perduta con il passare del tempo. Adesso è guardando i vostri volti, i volti di tanti giovani come voi, che torna in me la forza di portare avanti il grande sogno di Paolo. E questo avverrà fino all’ultimo dei miei giorni, della mia vita».

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