Dal 31 marzo è in proiezione nelle sale il film “Race- il colore della vittoria”, diretto da Stephen Hopkins. Oggi vogliamo parlare del grande atleta che fu Jesse Owens, uno dei grandi eroi del XX secolo, di cui questa pellicola ne ricama la biografia. Vincitore di quattro medaglie d’oro, tre in discipline individuali e una nella staffetta, alle Olimpiadi di Berlino del 1936 sfidò a testa alta non solo grandi avversari a livello atletico, ma anche l’ideologia razziale hitleriana e la mentalità schiavista statunitense.
James Cleveland Owens nasce in Alabama nel 1913 per trasferirsi poi non molti anni dopo in Ohio, dove, nel clima terribile della grande depressione americana, riesce comunque a intraprendere, non senza grandi fatiche, la sua carriera da atleta. Una giovinezza dura la sua; è il periodo della segregazione nera, lui si barcamena tra università e lavoretti saltuari e poco redditizi, ma comunque utili per pagarsi le spese delle studio e per aiutare finanziariamente la famiglia.
È proprio qui, tra le mura universitarie, costretto entro gli spazi riservati ai neri, che conosce il suo futuro allenatore, Larry Snyder, professionista che ha visto la sua carriera miseramente sfumare tra le sue mani e che ora, in crisi con la vita, sfoga le sue infelicità nell’alcool e nello sport, spingendo altri giovani talenti a realizzare il suo sogno. Sotto la sua guida, J.C. Owens il 25 maggio 1935, infortunato alla schiena, partecipa ai campionati del Middle West, presso l’Università del Michigan, battendo in un solo giorno record mondiali fino ad allora rimasti inviolati. L’America ha sotto i suoi occhi un futuro eroe olimpico, la sua fama cresce, ma anche qui il colore della sua pelle non gli permette di vedersi certi meriti riconosciuti.
Nel ’36, osteggiato da molti, addirittura dalla stessa comunità nera che lo invita a desistere in segno di protesta, partecipa alle selezioni olimpiche e si imbarca per l’Europa. A Berlino, sotto gli occhi di Hitler, nell’arena dell’imponente Olympiastadion, Owens conquista quattro medaglie d’oro e un posto nella memoria delle generazioni a venire. Si dice che Hitler si sia rifiutato di assistere alle premiazioni e che si sia defilato per non stringere la mano a quell’indegno vincitore. In più, fatto estremamente commovente di questa vicenda, le cronache riportano che l’avversario tedesco Luz Long, perfetto prototipo di purezza ariana, non solo abbia stretto amicizia con J.C. ma che addirittura l’abbia aiutato durante la gara ed esultato per la sua vittoria, superando gli ostacoli delle barriere razziali, delle ideologie: oltre la nazionalità, oltre il colore della pelle. Un’amicizia, quella tra i due atleti, che durerà a lungo, fino alla morte in guerra di Luz.
La vittoria del giovane afroamericano non verrà riconosciuta a pieno dal Reich (c’è chi sostiene per volere di Hitler e chi per le macchinazioni della stampa), ma, cosa ancor più sbalorditiva– o forse no- nemmeno dall’America, che lasciò il sue eroe nella miseria, ancora costretto a subire l’intolleranza del suo Paese nei confronti della popolazione nera, ricoprendo un posto di custode presso la sua stessa università dopo diversi anni di disoccupazione. Roosevelt addirittura si guardò bene dall’incontrare il giovane americano e il suo Stato gli riconobbe il titolo solo dopo molti, moltissimi anni.