Di Simone Apicella
Le parole sono importanti, affermava Moretti in un suo celebre film. E durante le festività laiche di settimana prossima ne sentiremo dire tante: solenni e dissacranti, aggressive e stemperate, polemiche e apologetiche. Ne potremo anche dire tante, e soprattutto potremo liberamente dire le parole che vogliamo, nella parlata che più ci piace. Se le festività nazionali hanno come scopo la celebrazione della memoria collettiva, non c’è momento migliore per ricordarci di quando, in Italia, esistevano forme di controllo che impedivano l’uso di certe parole, per sostituirle con altre. Si tratta della politica linguistica del regime fascista, che metteva al bando l’uso delle parole straniere.
L’ideologia fascista faceva dell’italianità un valore assoluto e fondativo, che trovava giustificazione storica nel mito di Roma imperiale; buona parte della simbologia politica fascista fa riferimento agli italiani come discendenti della civiltà imperiale Romana e come depositari della tradizione culturale latina. Qualsiasi forza minacciasse l’integrità nazionale doveva essere allontanata, e in caso di attacco, anche combattuta. Se applichiamo questo principio alle questioni linguistiche, comprendiamo perchè la politica linguistica del fascismo fosse fortemente orientata su posizioni nazional-puristiche. Da una parte, la totale avversione contro le lingue delle minoranze etniche presenti sul territorio nazionale; dall’altra, la lotta contro gli stranierismi, o forestierismi, cioè tutte quelle parole straniere che non appartengono alla lingua italiana, ma che sono entrate nell’uso comune dei parlanti.
Quella contro gli stranierismi fu una vera e propria “lotta”: nel 1926 Tomasso Tittoni, membro del Partito Fascista, pubblica sulla rivista “Nuova Antologia” l’articolo La difesa della lingua; nel ’33 esce il libro Barbaro dominio di Paolo Monelli. I titoli di queste pubblicazioni sono piuttosto eloquenti: l’idea è quella di un assedio straniero, il richiamo è quello dello scontro contro degli invasori culturalmente inferiori, il campo semantico appartiene al linguaggio militare dei comizi. Questo atteggiamento poi si trasformò in dichiarata avversione dopo il 1936, quando le relazioni internazionali in Europa si inasprirono e le proibizioni si intensificarono sulla spinta di un clima generale xenofobo.
Già nel 1930 erano state soppresse le scene in lingua straniera nei film. A coronare una sequela sanzionataria che si prolungava dal 1923, nel ’40 una legge pose il divieto di usare stranierismi nell’intestazione delle ditte, nelle attività professionali, nelle pubblicità.Sempre nel ’40, l’Accademia d’Italia, un’istituzione culturale che per statuto aveva come obiettivo lo “iscopo di promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano[…], di conservarne puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l’espansione e l’influsso oltre i confini dello Stato“, venne incaricata di sorvegliare chi facesse uso di parole straniere e di indicare delle sostituzioni.
Membri dell’Accademia d’Italia in divisa ufficiale.
Alcune delle sostituzioni operate dall’Accademia sono diventate effettive e e le usiamo tuttoggi, ad esempio arresto per stop, assegno per check. Altre ancora invece non hanno attecchito e si sono perse, nonostante molte continuino a sopravvivere sui dizionari: tassellato per parquet, o anche uovo scottato per uovo alla coque, e ancora ferribotto per ferry-boat. Altre parole sono sopravvissute ma con lievi variazioni di significato, come garage e rimessa. Certi stranierismi che erano entrati nel lessico dell’italiano già dalla seconda metà dell’Ottocento sono stati conservati anche dall’Accademia: sono sport, film, tennis tram.
La politica linguistica del fascismo produsse dei risultati notevoli, fino a quando il regime non venne rovesciato nel 1943 – e poco oltre con la sua estrema propaggine della Repubblica Sociale di Salò. La linguista Dell’Anna in Lingua italiana e politica (2010) spiega che i riflessi di questa politica “sono stati scarsi, sia perchè è stata subito abrogata la normativa esterofoba, sia perchè la stessa, anche in assenza già all’epoca di una pianificazione organica, non è stata seguita da alcun altro intervento normativo”.
All’uomo del XXI secolo, abituato ad usare l’inglese come lingua franca e ad infarcire i propri discorsi con parole tipo post, link, app, smart-phone, la censura linguistica può sembrare davvero un fenomeno da regime totalitario. Eppure, questo scorcio di storia della lingua italiana mostra come l’apertura più o meno larga di una lingua verso un’altra porti con sé dei significati che sono anche politici. La parole sono importanti, affermava Moretti.
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