L’ARTICOLO CONTIENE IMMAGINI FORTI: ENTRATE A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO
È giovedì, fuori c’è calma piatta, e la voglia di mettere il naso fuori casa tende a meno infinito. Cosa fare? C’è chi, rassegnato, va a letto, ma c’è anche chi, annebbiato dalla noia ma pur sempre desideroso di mettere in moto le sinapsi, decide di accendere la TV e lasciare che Piero e Alberto Angela inculchino un po’ di cultura generale nella nostra mente. O almeno così crediamo.
Ma che c’entra SuperQuark, uno dei più longevi e validi programmi di divulgazione culturale della televisione italiana, con il controverso mockumentary di Ruggero Deodato, Cannibal Holocaust? Per trovare il nesso bisogna fare un piccolo passo indietro, e sollevare un argomento – o meglio, una domanda – che mai come oggi risulta di bruciante attualità: quanto possiamo fidarci di ciò che vediamo?
La vista è comunemente considerata il senso più affidabile. Sicuramente il più stimolato e inflazionato. Ovunque ci giriamo la nostra vista è solleticata da pubblicità, immagini, movimenti, ed è per questo naturale che la fiducia nei nostri occhi superi di gran lunga quella riposta negli altri sensi. È la logica conseguenza di vivere nella cosiddetta “civiltà dell’immagine”.
Ed eccoci di nuovo nel nostro salotto, mentre una serie di immagini ci scorre davanti agli occhi, rigorosamente accompagnate dalla voce suadente di Piero Angela. Che si tratti di un documentario sull’accoppiamento dei cavallucci marini o un reportage su una sconosciuta popolazione africana mai udita prima d’ora, la nostra mente è portata a fidarsi ciecamente di ciò che vediamo sullo schermo. E poco importa se il cinema ha ampiamente dimostrato che l’immagine può essere falsificata, manipolata: quando guardiamo un documentario abbassiamo le nostre difese, e crediamo anche all’incredibile.
Ruggero Deodato non è di certo il primo a sottolineare il potere persuasivo dell’immagine, ma è sicuramente uno degli esempi più noti e controversi, visto che a causa di Cannibal Holocaust il regista ha rischiato addirittura di finire in carcere!
Nel film, uno dei primi e più brillanti esempi di “finto documentario” ante litteram (prima, cioè, di quell’aborto di The Blair Witch Project), una troupe di famosi documentaristi si addentra nella foresta amazzonica in cerca di una tribù che pratica cannibalismo. Lì, dopo aver scuoiato un po’ di animali (rigorosamente vivi), si imbattono in una scena che definire agghiacciante è poco: una ragazza indigena viene violentata da un membro della tribù, il quale finisce per impalarla davanti agli occhi allibiti dei documentaristi.
Ora, il trucco cinematografico è semplice: basta un sellino, due metà di un palo e tanto, tanto sangue finto per ricreare in casa un impalamento da manuale. Purtroppo per Deodato, però, il trucco gli è riuscito così bene da farlo finire davanti ai giudici con l’accusa di aver girato uno snuff movie vero e proprio, ovvero di aver filmato un reale omicidio. La finzione, in questo caso, è più credibile della realtà.
Più o meno consapevolmente, insomma, Deodato muove una delle più feroci critiche al documentario girando un film che ne adotta le vesti e l’intento, iniettando però tra le sue trame il veleno della finzione. È un pugno sui denti al pubblico di allora, sicuramente più credulone e non così sensibilizzato alla finzione mediatica come siamo noi; anche a distanza di 30 anni, però, il suo monito risuona più attuale che mai, bombardati come siamo da raffiche di immagini, telegiornali e pubblicità.
Prestate attenzione, insomma, la prossima volta che vi appassionate all’accoppiamento dei cavallucci marini: potrebbero essere solo degli attorucoli ben pagati in uno squallido acquario 1×1 metro a Cinecittà.