Non serve rivolgersi alla Disney per trovare su pellicola dei mondi sospesi nello spazio e nel tempo. Utopie da fiaba, scenografie surreali sono una prerogativa del cinema live action sin dalle origini, e tra i cineasti contemporanei Wes Anderson (I Tenenbaum, Grand Budapest Hotel) è quello che più di tutti raccoglie su di sé l’eredità di Georges Méliès ed epigoni, reinterpretandone la vena visionaria secondo il proprio, personalissimo gusto. Ed ecco quindi che uno scalcinato treno per l’India diventa teatro di una ricerca emotiva e spirituale per i tre fratelli de Il treno per il Darjeeling, mentre in Grand Budapest Hotel un fittizio resort dell’Est Europa nasconde un secolo di Storia del Vecchio Continente dietro le sue tinte pastello e i corridoi di cartongesso. Ma, se è vero che il primo amore non si scorda mai, va a Moonrise Kingdom il grande merito di avermi fatto scoprire il regista in una pallida serata di dicembre, ritagliandosi così un posto d’onore in cima alla mia lista.
New Penzance, luogo in cui è ambientato il film, è un’isola che non c’è in cui il tempo sembra scorrere in modo diverso dal solito. La carrellata iniziale, grazie alla quale veniamo introdotti nel cuore della famiglia di Suzy Bishop come fosse una casa di bambole, è rigorosissima, maniacale come Kubrick insegna ma incredibilmente intima, carica di quell’asettica dolcezza che è poi il marchio di fabbrica di Anderson.
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Suzy è una dodicenne problematica. Lo è anche Sam Shakusky, seppur per motivi diversi. I due – lo scopriamo grazie a un flashback da antologia – si sono conosciuti l’estate precedente, e per un anno intero si sono scambiati lettere all’insaputa di tutti fino ad arrivare a progettare una fuga. L’amicizia di penna dei due bambini diventa quindi un’esperienza totalizzante e portata alle estreme conseguenze, con la fuga finale che rappresenta sì un atto sconsiderato, ma che proprio per questo traduce in azione ciò che ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, ha sognato di fare.
Con un rovesciamento dei ruoli prestabiliti tipico di Anderson, in Moonrise Kingdom sono gli adulti a sembrare, paradossalmente, dei bambini troppo cresciuti. Dal capo scout (Edward Norton) che si fa scappare prima Sam, poi l’intera truppa da sotto il naso, fino al tristissimo e rassegnato padre di Suzy (Bill Murray), che si lascia metaforicamente scappare la moglie da sotto gli occhi; tutti gli adulti del film sono più o meno inetti, incapaci di barcamenarsi tra le responsabilità del lavoro e i doveri genitoriali, laddove i bambini riescono invece a sopravvivere per giorni interi da soli in un accampamento di fortuna. La comunicazione tra gli adulti è sempre filtrata e, in ultima analisi, sostanzialmente impossibile, vuoi per l’inaridimento dei rapporti di coppia (magnificamente simboleggiato da Anderson con l’uso dei megafoni), vuoi per la burocratica freddezza di Servizi Sociali (Tilda Swinton), non a caso spersonalizzata persino nel nome. Non c’è un briciolo di speranza, sembra dire Anderson attraverso il suo filtro apparentemente spensierato, se non nell’amore vissuto dai bambini, privo di paletti nonché unico amore possibile in un mondo in rovina.
A conti fatti Sam e Suzy non sono altro che la rivisitazione contemporanea di Romeo e Giulietta, e Moonrise Kingdom, con i suoi colori pastello e atmosfere fiabesche, riprende l’idea shakespeariana di una spaccatura incolmabile tra il mondo degli adulti, paralizzato da faide, e la dimensione interiore di due bambini pronti ad attraversare foreste, fiumi, scarpate scoscese e campi di fulmini pur di vivere un amore nato “sotto contraria stella”. Quella che a prima vista potrebbe sembrare una banalissima storia d’amore, quindi, trascina con sé la visione del mondo di uno dei registi più importanti del cinema contemporaneo, e diventa archetipo – non a caso, come una fiaba – di un auspicabile quanto difficile ritorno all’innocenza. Difficile, ma forse non impossibile: è la magica empatia che si crea tra lo spettatore e i due giovani protagonisti – un buffo scout, una inguaribile sognatrice – a farci tornare bambini anche solo per un attimo, e a far provare anche a noi “adulti” un po’ di nostalgia per il perduto “regno del sorgere della luna”.
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