Commenti di indignazione o di giubilo in reazione all’arresto di una persona colta in flagranza di reato sono una denuncia ben più grave di quelle che si potrebbero muovere a un imputato di reati minori: nel primo caso, indicano un rifiuto dell’applicazione di una legge, che per quanto discutibile è pur sempre legge; nel secondo sono il sintomo di un mai superato desiderio di vendetta, e quindi di una certa inettitudine alla giustizia. Che questa richieda dolore e non spettacolo, pacatezza e non clangore, è fatto antico, forse tanto da essere addirittura dimenticato.
A muovermi a questa riflessione è il recente arresto di un ragazzo del liceo ginnasio statale “Virgilio” di Roma per spaccio di sostanze stupefacenti, fermato dalle forze dell’ordine all’interno dell’istituto durante la ricreazione. All’accaduto sono seguite proteste da parte degli studenti, prontamente documentate anche da alcune testate giornalistiche (articoli in merito si trovano, ad esempio, sulle pagine online delle sezioni romane de La Repubblica e del Manifesto), e, successivamente, accese discussioni su Facebook, in particolare sulla pagina di quello che si fa chiamare Collettivo Auto organizzato Virgilio. Queste ultime meritano una certa attenzione.
A destare scalpore in alcuni e a suscitare rabbiosa soddisfazione in altri, è stata di fatto, l’applicazione della suddetta legge, cioè l’arresto. Gli interventi, erano, sin dal principio, schierati da una parte o dall’altra; ai commenti mossi non da emozione ma da razionale riflessione toccava la consueta e triste sorte, difficile da vincere, del terzo fronte in una situazione dicotomica: essere tenuto per ambiguo (e quindi destinato a ricadere nell’orbita dell’una fazione agli occhi dell’altra, con scontentezza di entrambe le parti) o essere ignorato, perché non compreso. Si è quindi riproposto uno scenario da tifoseria o, se si preferisce, da talk show: negandone la natura di espressione di volontà e di manifestazione di libertà, la scelta è stata affidata all’appetito della pancia, con sua conseguente degradazione a strumento d’appagamento.
Queste considerazioni, però, sono solo un volto del fenomeno. Altro suo aspetto notevole è la strisciante e sempre più diffusa concezione distorta della giustizia: “chi sbaglia deve essere punito”; quando sarebbe almeno auspicabile un “chi sbaglia deve pagare”, cioè deve rendere conto del suo reato, che in quanto reato è contro la società, alla società stessa. Questa distinzione può sembrare sfoggio di capziosità retorica e sofisma, ma è in realtà fondamentale.
La differenza tra “essere punito” e “pagare” è innanzitutto linguistica: nel primo caso il colpevole è oggetto di punizione; nel secondo è un soggetto debitore. Inoltre, c’è una differenza sostanziale: chi è punito subisce il castigo indipendentemente dalla comprensione tanto di ciò che ha fatto, quanto del motivo che rende delittuosa la sua azione; chi invece si trova a pagare, in linea di principio, riconosce il valore della sua azione e quindi del perché è reato (in linea di principio, si badi bene; nella realtà la questione non è così semplice, e ora non c’è tempo di affrontarla).
Un ulteriore problema nascosto sotto allo strato di voci urlate in risposta alle implicite domande poste dai fatti di cronaca letti con un’impostazione di pensiero referendaria (pro/contro, si/no, amico/nemico, mi piace/odio) è quello della mancata riflessione -fondamentale a ogni sensata proposta di soluzione- sulle cause di un avvenimento e sul contesto nel quale si è svolto. Nel caso in questione, salvo rare eccezioni, non si è stati minimamente toccati da quello che il nostro affezionatissimo e inflazionato Pasolini già nel 1975 definiva “vera tragedia nazionale”, e cioè il problema della diffusione delle droghe nella società, e in particolare fra i giovani (per la precisione, Pasolini parlava solo dei giovani; noi, dal momento che molti consumatori di droghe leggere sono poi, almeno anagraficamente, cresciuti e non sempre si sono astenuti dall’antico vizio, parliamo anche di loro), che è stato taciuto come da una certa amara rassegnazione a una quotidianità in cammino sulla strada per farsi norma. Le posizioni in merito si sono riflesse sulla discussione presa in esame sotto forma di sentimenti incancreniti e inveterati negli animi dei commentatori, sempre schierati in due fronti contrapposti, e hanno finito per sfuggire al controllo razionale dei loro autori, inquinando di livori un dibattito già lontano da una richiesta o almeno auspicata pacatezza d’animo (non intellettuale, sia chiaro: quella rientra nell’ipocrisia del politicamente corretto).
Per correttezza è opportuno citare l’articolo “La droga a scuola non si combatte arrestando gli studenti” di Christian Raimo, pubblicato sulla rivista Internazionale il 25 marzo 2016. Le intenzioni dello scritto sembrano essere quelle di affrontare, o quantomeno di porre, il problema. Purtroppo, come era prevedibile, invece di dare un’ossatura ad una discussione simile più a un agone retorico che a un confronto di idee, l’articolo è stato usato da una delle due parti per attribuire alle proprie istanze un’aura di autorevolezza e veridicità (come a dire: “Internazionale ci dà ragione!”).
Ora, intento del presente articolo non è quello di affrontare la complessa questione delle droghe e delle cause della loro diffusione così estesa all’interno della società, ma di denunciare la totale mancanza di una razionale (che non è sinonimo di fredda, cinica ed emotivamente insensibile) riflessione al riguardo. Certo, la denuncia porta con sé una certa preoccupazione e una conseguente breve analisi del funzionamento dell’opinione comune sotto la reggenza Zuckerberg; e certo non sono cieco al rapporto di molti italiani con l’idea di giustizia, totalmente estraneo alle concezioni illuministiche di Beccaria, che, almeno istituzionalmente, sembriamo preferire ad “alcuni avanzi di leggi”. La questione delle droghe, si capisce, è solo un esempio della difficoltà di impostare una discussione razionale. Vari elementi concorrono a inibirla, primo fra tutti un manicheismo di fondo, insito nella mentalità di molti, ben esemplificato dal tasto “mi piace” di Facebook, che sottintende un “non mi piace” implicito nel tasto “commento”. Un post gradito all’utente riceve il suo plauso senza analisi e senza discussione; uno sgradito, la sua indifferenza o la sua invettiva. Ora, la deficienza, se non addirittura l’assenza, di discussioni, porta inevitabilmente a uno scadimento della ragione, la cui funzione diventa quindi quella di capire quale posizione assumere rispetto a un post, ma non quella di crearsela. Poi, il suggello arriva dal fraintendimento della libertà d’espressione: a chi chiede giustificazione di una scelta si risponde prima con argomentazioni, più o meno fondate, più o meno razionali; poi, qualora queste venissero a vacillare, viene in soccorso la frase “ok, ma per me è così”, che, sotto la veste del rispetto, non fa che riconoscere un’irriducibile inconciliabilità di posizioni, che gridano inascoltate prima di tacere; oppure, che è lo stesso, finisce per delegittimare una posizione agli occhi dell’altra. Ovviamente, e per fortuna, questa è un’esposizione schematica del manicheismo.
Naturalmente, ad aver dato vita a questa struttura di pensiero non è certo Facebook, che anzi la maschera (e proprio per questo la rende ancor più pericolosa, poiché la avvelena di inconsapevolezza). La dicotomia è una cifra del nostro tempo, e in particolare di una società figlia del cosiddetto “bipolarismo imperfetto” e del berlusconismo. Su questa struttura si innesta l’ipocrita e banale prospettivismo del “per me è così”, che può al massimo frammentare gli schieramenti della dicotomia, senza però contribuire a favorire le possibilità di sviluppo di discussioni razionali, e quindi di libertà.
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