Immaginate che un vecchio milionario vi offra una valanga di soldi per passare una settimana nella casa più infestata del mondo, non a caso chiamata “casa d’inferno”. Lui ha tutto da guadagnare, perché tra quelle decrepite pareti potrebbe essere nascosto il segreto della vita oltre la morte, e un migliaio di dollari in meno non pesano poi molto se si è costretti a letto dagli acciacchi. Anche voi, però, che prossimi alla morte non siete, intravedete una possibilità di guadagno: lavorare una settimana per sistemarsi a vita è una cosa che difficilmente non alletta, soprattutto se quei soldi vi servono per mantenere una famiglia o realizzare il vostro sogno. Ecco che, come nei migliori racconti horror, vi ritrovate, il giorno seguente, in una limousine che inabissarsi sempre più nella valle miasmatica in cui sorge, infetta, la famigerata casa d’inferno.
Ora, Richard Matheson non è esattamente il primo scrittore che passa per la strada. Per chi non lo conoscesse, è suo il romanzo da cui è stato tratto il celeberrimo Io sono leggenda con Will Smith, oltre a una sfilza di adattamenti ben più fedeli. Un pezzo grosso della narrativa horror/fantascientifica, insomma, uno che il soprannaturale lo mastica praticamente dalla culla.
Dopo una serie di successi che lo fanno avvicinare al piccolo e al grande schermo in veste di sceneggiatore (accanto a Hitchcock), nel 1971 esce La casa d’inferno, destinato a diventare un classico del genere.
Due spedizioni di esperti hanno già tentato, nel corso degli anni, di risolvere il mistero della casa, ma nessuno di quelli che vi hanno messo piede ha mai abbandonato vivo la soglia maledetta. Nessuno tranne uno: Benjamin Fischer. Era solo un ragazzino ai tempi della seconda spedizione e ora, a distanza di trent’anni, viene nuovamente invitato al luogo in cui tutto è cominciato. Accanto a lui lo scienziato Lionel Barrett con la moglie Edith, e la medium mentale Florence Tanner. È un gruppo ben assortito ed eterogeneo, ciascuno esperto nel proprio campo di indagine. Barrett, ad esempio, vuole dimostrare al mondo che la parapsicologia è una scienza rigorosa, e per farlo si serve di un macchinario di sua invenzione e di un approccio pragmatico. Florence, nemmeno a dirlo, è tutto il contrario: sensitiva, profondamente religiosa, e convinta che l’approccio migliore sia l’empatia, non certo l’arida scienza.
Il quinto abitante della casa, invisibile ma onnipresente, è Emeric Belasco. La casa d’inferno è – o sarebbe meglio dire era, visto che è morto da decenni – sua, ma in qualche modo la sua presenza maligna continua ad avvolgere coloro che si addentrano nella sua magione, soffocandoli con la sua ombra e portandoli sull’orlo del baratro. Ed è questa una catabasi infernale in cui Matheson trascina anche il lettore, servendosi sia di una scrittura tanto immediata quanto diretta, sia di un armamentario orrorifico che si stampa nell’immaginazione in maniera inconscia, subliminale, finché non ci si rende conto che è troppo tardi per chiudere il libro: anche il lettore, così come i protagonisti, vuole arrivare fino in fondo al mistero di casa Belasco, non importa quanto doloroso possa essere il viaggio.
Il problema di molta letteratura sul tema “case infestate” è che si basa su premesse discutibili: se non si crede ai fantasmi o alle possessioni il tutto si riduce a una favoletta buona per conciliare il sonno. Matheson l’ha capito, e il punto di forza de La casa d’inferno è che riesce a rendere plausibile l’impossibile. La scrittura è talmente convincente, gli effetti sul corpo e sulla psiche tanto gravi, che condensati di ectoplasmi vermiformi risultano effettivamente credibili e spiegabili, alla pari dei cicli lunari o del processo di ebollizione dell’acqua.
Chi ha letto qualcosa di Shirley Jackson, altra maestra del genere con L’incubo di Hill House, troverà un approccio totalmente diverso alla materia, ma ugualmente perturbante. La sottile atmosfera a metà tra realtà e incubo della Jackson lascia il posto in Matheson a una rappresentazione fisica e granguignolesca della depravazione, con picchi in cui la sessualità latente esplode in violenza blasfema. Lo si potrebbe definire un sequel spirituale dell’opera settecentesca del Marchese De Sade, Le 120 giornate di Sodoma: in entrambi i romanzi si cerca di portare alla luce le radici del Male, ma nel farlo tocca – come in un viaggio dantesco, appunto – affondare corpo e mente nel mare magnum delle perversioni umane, con il rischio di riemergerne profondamente cambiati.
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