Il 2016 è iniziato all’ombra di una discesa, per non dire crollo, del prezzo del petrolio al barile che è arrivato a toccare quota 26 dollari, minimo storico da 12 anni. Sulle cause ed effetti di questo deprezzamento si è molto discusso e, se molti sono del parere si tratti di un complotto ai danni dello Shale-Oil statunitense, non si possono non escludere gli effetti delle dinamiche congiunturali mondiali sicuramente meno prevedibili.
In economia se l’offerta aumenta e la domanda resta stabile, il prezzo è destinato a scendere, ed è dunque proprio questo che è successo. Il taglio della produzione manifatturiera in Cina, una ripresa debole se inesistente in Europa e un’economia americana che ritarda la data di rilancio, sono elementi sufficienti per leggere, nel panorama mondiale, una complessiva contrazione della domanda di materie prime e, in particolare di petrolio. All’opposto la produzione mondiale di oro nero è aumentata a causa, per gioia dei complottisti, di una guerra dei prezzi che vede coinvolti Stati Uniti e Opec. Infatti, secondo Nick Giambruno, un analista vicino al venture capitalist Doug Casey, “nel 2014 venne siglato un patto informale Arabia Saudita-Usa” attraverso il quale il re Abdullah avrebbe dovuto inondare di petrolio i mercati internazionali nel tentativo “di danneggiare gli avversari geopolitici nel teatro mediorientale: Iran e Russia” (Wall Street Italia, 11 marzo 2016). Altri, al contrario, sostengono che la forte volontà da parte dell’Opec di non ridurre la produzione di petrolio sia stata sostenuta nel tentativo di penalizzare lo Shale-Oil americano e, dunque, infliggere danni all’economia americana nel suo complesso.
Su come siano andate le cose si sta ancora dibattendo, fermo restando il fatto che lo squilibrio tra offerta e consumo, con una sovrapproduzione mondiale, ha giocato un ruolo decisivo nel far precipitare il prezzo del barile del 70% dai 115 dollari di giungo 2014. Inoltre, secondo alcuni analisti tra cui Bjarne Schieldrop, analista capo per le materie prime alla SEB di Oslo, un surplus di due milioni di barili di petrolio al giorno continuerà a pesare sui prezzi nel breve termine (BBC, 14 marzo 2016) pur non escludendo un rialzo nel medio/lungo termine.
Veniamo agli effetti, infatti si potrebbe pensare che un calo del prezzo del barile, trasmettendosi ai carburanti, abbia aumentato il risparmio e dunque la possibilità di spesa dei consumatori, una manna dal cielo per l’esausta economia europea. Questa tesi, sostenuta tra i molti anche dal ministro delle finanze tedesco Wolfang Schauble, non tiene conto tuttavia di numerose criticità tra cui la scarsa volontà da parte dei risparmiatori europei di spendere in uno scenario economico ancora imprevedibile e senza dubbio non esaltante. Inoltre, un calo dei prezzi vuol dire deflazione ovvero esattamente il contrario dell’obiettivo degli organi istituzionali europei in questo momento. In ultimo, se una discesa dei prezzi possa invogliare a spendere, senza dubbio il calo del petrolio è circoscritto a un periodo troppo breve per influenzare drasticamente e strutturalmente l’attitudine alla spesa dei risparmiatori europei.
A livello mondiale, il calo del prezzo del petrolio sta mettendo in seria difficoltà i paesi che basano sull’oro nero la propria economia e che fanno di questo uno strumento di garanzia per i propri debiti, tra cui il Messico, ponendo a serio rischio la solvibilità delle aziende, quotate nei paesi emergenti, e dei governi degli stessi (per un’analisi più approfondita cfr. Debito: a love story).
Infine, la aziende produttrici americane di Shale-oil vedono nel calo di petrolio una continua erosione ai propri profitti e dunque la possibilità di non rientrare nei crediti ricevuti dalle banche con il rischio di licenziare lavoratori e di minare la stabilità degli istituti di credito coinvolti nei finanziamenti al costoso sistema di estrazione del petrolio dalla roccia (Affari e finanza, 7 marzo 2016).
Insomma, come ogni evento di portata mondiale è sempre difficile trarre conclusioni, le variabili in gioco sono tante e in continuo cambiamento, tuttavia un fatto rimane certo: il mondo non è a “secco” di petrolio, anzi. Il calo del prezzo per l’aumento di produzione testimonia il contrario e pone in seria discussione la convenienza dello sviluppo di fonti di energia pulite e rinnovabili alimentando altresì la dipendenza mondiale dall’oro nero. Provate a vendere a un fumatore sigarette a due euro il pacchetto e vedrete che aumenteranno le possibilità che non smetta di fumare.
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