Timbuctù, Mali, 2012.
L’antica città capitale di uno dei quattro sultanati è oggi un gruppo di casette di terra essiccata, in cui il gruppo armato di jihadisti, i cosiddetti Ansar Dine, si è insediato prendendo il controllo della città. Ogni giorno gli estremisti si aggirano tra le abitazioni emanando proclami di divieto di fare qualunque cosa; i capi che girano con un megafono parlando in arabo, sono seguiti dai ragazzi locali che si sono uniti a loro e traducono in tamashek, la lingua locale:
Informazione importante, è proibita la musica
È proibito il gioco del calcio
E poi ancora vietate le risate e le sigarette. Alle donne viene imposto il velo islamico, l’uso dei guanti e delle calze scure, per tutti c’è il coprifuoco.
Poco distante dalla città, tra le dune sabbiose del deserto, vive la famiglia del pastore Kidane (interpretato da Ibrahim Ahmed) che abita la grossa tenda berbera con la moglie Satima (Toulou Kiki) e la figlia Toya (Layla Walet Mohamed) e il piccolo guardiano della loro mandria di buoi. La loro vita nomade è tranquilla, la jihad non ha ancora stravolto le loro vite.
Satima non porta il velo, lascia il bellissimo viso scoperto alla luce del sole con un orgoglio tale da riuscire a intimidire anche il capo del gruppo armato che ne rimane affascinato. Indossa gli abiti tipici tuareg con monili fatti di perline colorate. Anche la famiglia di Kidane però, che inizialmente riesce a sottrarsi alle nuove regole imposte dai fondamentalisti, non rimarrà immune a lungo dalle folli leggi imposte dagli estremisti.
Il film mostra lo scontro tra due modi di vivere l’Islam, quello distorto e violento basato sulla Shariʿah e quello più equilibrato e sereno dei maliani, i quali con orgoglio e coraggio cercano con tutte le proprie forze di opporsi all’assurdità delle regole che vengono loro inflitte, pagando caro il proprio coraggio, come i tre giovani che vengono frustati per essere stati sorpresi a suonare e cantare.
Timbuktù è un film amaro, amarissimo, che non concede nemmeno un minuto di serenità e distensione a chi lo guarda, ma lascia molta più consapevolezza di cosa sia davvero l’orrore della jihad, e rimarca con forza che quel complesso di folli regole di vita e di comportamento non corrispondono a quella che è la religione islamica.
L’imam della città è il primo a discutere con i capi dei gruppi armati: “Fermatevi, fermatevi, danneggiate l’Islam e i musulmani” dirà senza essere ascoltato.
Girato nel 2014 dal regista Abderrahmane Sissako è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 2015, anno in cui è uscito in Italia, e alla Palma d’oro a Cannes, dove ha vinto il Premio Giuria Ecumenica e il François Chalais Prize.
Al di là dei riconoscimenti ufficiali, Timbuktù è un film da vedere, bellissima la fotografia, profondissime le tematiche che affronta, è uno di quei film che aiutano a crescere e diventare più consapevoli del mondo in cui viviamo.
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