Eravamo appena scesi tram. Gabriele si accese una sigaretta. Io mi abbottonai l’impermeabile. Cercai anche io una sigaretta in tasca. Gli chiesi:
«L’amico tuo PR c’è?»
«Sì sì sì, prima gli ho scritto, ha detto che si fa trovare fuori, vicino all’ingresso».
Non faceva molto freddo. Un gruppetto di studentesse erasmus passò accanto alla fermata, andava nella direzione del Deep Orange. Ci avviammo al loro seguito.
Eravamo già da più di mezz’ora nella bolgia del locale. Il Deep era un seminterrato molto largo, diviso in pista e privé e con un soppalco che fungeva da super privé e console. Dopo aver preso il drink e fatto un giro d’osservazione nella pista, ci fermammo su degli scalini. Mi accorsi che una tizia, già per la terza volta, passava davanti a noi lanciandomi occhiate. Aspettai che uscisse dal bagno e mi avvicinai deciso.
«Ciao, ti disturbo?».
«No».
«Vieni, andiamo a parlare».
Presa la sua mano, schizzai verso il bagno, cercando con gli occhi i buttafuori. Non erano ancora di guardia al WC. A inizio serata i bagni delle disco non sono mai pieni. Intanto era partita una canzone lenta. Le stesi una manata larga sul fondo schiena per convincerla a entrare. Un sedere gonfio, ma a misura d’uomo. Non oppose resistenza. Poi un abbraccio da dietro mi abbassò il corpo.
«Vieni con noi!».
Due ragazzi in jeans e camicia mi presero dal collo e mi portavano verso l’uscita con passo veloce. Ridevano tra loro. Non volevano dare nell’occhio. Mentre mi trasportavano cercai di capire chi fossero. Dal contatto con la barba del mio trascinatore destro capii che non erano adolescenti imbruttiti. Pensai a due poliziotti in borghese e mi rasserenai dato che non avevo fatto niente.
«Angelo, tutto bene?», Gabriele aveva visto tutta la scena.
«L’amico tuo sta con noi stasera», rispose uno dei due.
Eravamo arrivati vicino all’uscita. Nessuno ci aveva notati. Una volta fuori, sempre tenendomi stretto tra loro, mi portarono verso un parchetto illuminato esternamente ma buio all’interno. Vedevo solo le loro scarpe di marca, mi tenevano a testa in giù. Sentivo che altri ci seguirono, eravamo un gruppetto ormai. Arrivati nel parchetto vuoto mi buttarono in terra.
«Bucchì!» esclamò il primo tirandomi una scarpata. Aveva un forte accento napoletano misto laziale. Forse ciociaro. «Moc’ a mamt» e giù con il secondo calcio nella schiena, al quale seguirono molti altri nella pancia. Cercavo di non urlare per il dolore.
Gabriele, che ci aveva seguiti, e aveva iniziato un tentativo di pacificazione. Cercava di convincerli che ero solo un ubriaco. Sentii dirgli «dai hai vinto, è a terra!».
«Ho vinto? Il bocchinaro ha toccato la ragazza del figlio di Antonio Maiatta, deve morire» urlava in campano stretto mentre continuava darmi zampate sulla faccia, nello stomaco. Da tutte le parti.
Antonio Maiatta. Che ne potevo sapere io che era la fidanzata di qualche mafiosetto sconosciuto, del figlio poi. Intanto la sua suola era sulla mia guancia. Vedevo la luce della TV in alcune finestre dei palazzi vicini. Accanto al parchetto passavano macchine con musica alta e urla di festa. Era arrivata anche la ragazzetta con un’amica, piangeva soddisfatta. Mi usciva sangue dal naso. Non riuscì a spiccicare mezza parola.
Sentii un’altra macchina, si fermò. Scesero almeno in due.
«È lui?» chiesero al mio massacratore.
«Ecco, la merda» rispose con orgoglio.
«Vieni piccolo, vieni» mi disse uno dei nuovi arrivati. Un saraceno ben vestito e curato.
Intanto un altro, obeso, mi aveva alzato da terra e da dietro mi teneva sotto le ascelle, la sua pancia faceva da cuscinetto. Sulla strada passavano gruppi di giovani eccitati. Mi trovai faccia a faccia con l’incamiciato, pieno di catenine. Poteva essere Antonio Maiatta o il figlio, oppure solo un sicario, ma chi li conosceva. Mi aspettavo un discorso fatto di onore e rispetto. Sentì una lama non molto grande bucarmi la pancia. L’obeso mi pose sul brecciato. Sputavo sangue.
Gabriele chiese sottomesso a uno di loro se poteva chiamare l’ambulanza, «Chiama il prete» gli risposero. I tizi salirono sulle auto, delle Mini Cooper, e volarono via.
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