Au pair, viaggiare guadagnando

Si dice che oggi il sogno di viaggiare sia più accessibile rispetto al passato. Il motivo, forse, sono i mezzi di trasporto tecnologici di cui siamo forniti o la maggiore istruzione che stimola la curiosità. In molti, anche senza troppi mezzi economici, si lasciano stuzzicare dal viaggio, dal mondo, da una vita nuova e sconosciuta. Ci sono diversi modi per partire senza spendere troppo denaro e uno di questi è la ragazza alla pari, au pair, che mi ha permesso di scoprire la regione francese delle Rhone-Alpés.

È una realtà poco conosciuta al giorno d’oggi, anche se ne abbiamo numerosi esempi, tra cui Mary Poppins e Vivian Maier. Si tratta di inserirsi in una famiglia locale come tata, ricevendo in cambio vitto, alloggio, stipendio e una porta sul mondo nuovo. Si crede che sia uno scambio culturale più adatto alle ragazze, perché più propense a prendersi cura dei bambini e perché più sicuro che buttarsi in una città sconosciuta senza un appoggio, ma posso assicurare dalla mia esperienza che ci sono anche casi di ragazzi alla pari. Uno di loro, che ho conosciuto tra le Alpi francesi, era spagnolo e, pochi mesi dopo il nostro incontro, si è trasferito in Bretagna a fare il papà del suo bambino; un altro veniva da Ibiza, viaggiava continuamente a fare il “tato”: una maniera come un’altra per girare il mondo. Quando si è stancato, si è trasferito a Londra e ora fa il cuoco.

Non c’è uno stereotipo di ragazzo alla pari, né uno stereotipo di famiglia. È importante quindi partire senza alcun tipo di pregiudizio e allo stesso tempo sperare che chi si sta per incontrare e con il quale si conviverà per un po’, sia affine al proprio modo di essere. Sono stati questi i presupposti che mi hanno spinta a iscrivermi al sito aupairworld.com, una piattaforma digitale dove ci sono sia au pair che famiglie ospitanti. Si compila un profilo con dati e fotografie e si selezionano le preferenze del luogo in cui si vorrebbe andare, per i ragazzi, e la nazionalità ed età delle tate, per le famiglie. Si può inoltre specificare se si è fumatori, se si è in grado di trattare con bambini problematici o con bambini piccoli. Non sono aspetti da sottovalutare, come ha fatto una ragazza inglese che ho incontrato a Lione, che ha accettato di lavorare con un bambino iperattivo e dopo due mesi è stata costretta ad andarsene perché non realmente in grado di gestirlo. È importante avere un profilo il più preciso e onesto possibile, perché il livello di compatibilità con la famiglia da cui si andrà a vivere determina la buona o la cattiva riuscita del viaggio.

Il primo contatto avviene tramite video chiamate ed email, così da instaurare una conoscenza preliminare e darsi fiducia a vicenda ma non sempre questo è sufficiente per assicurare un buon rapporto. Nella mia prima esperienza di au pair è accaduto proprio questo disguido. Spesso nella presentazione online si mostrano le caratteristiche migliori, ma nel quotidiano e per un tempo prolungato, come ben sa chi ha avuto una camera in una casa con più coinquilini, è difficile mantenere la facciata. Ciò che avevo valutato male era anche il fatto che la famiglia che mi aveva accolto era per metà italiana. Pensavo sarebbe stato utile non conoscendo una parola di francese e invece si è rivelato un ostacolo nel mio apprendimento della lingua e nello scoprire la Francia. A Lione avevo la possibilità di conoscere quante più persone possibili e mi sono ritrovata senza accorgermi a frequentare ciociari, messicani, neozelandesi e chi più ne ha più ne metta, ma di lionesi neanche l’ombra. Non ero immune alla regola di sopravvivenza che ci spinge verso persone che hanno la condizione più simile alla nostra, che in questo caso era quella di stranieri.

Poi mi sono trasferita in un paese di sei mila abitanti, vicino a Ginevra. La famiglia a cui ero approdata era composta da una giovane donna, di Avignone, un giovane uomo, che veniva dalla regione vulcanica dell’Alvernia, e tre bambini montanari. I ragazzi del posto con cui ho stretto amicizia erano tutti nati e cresciuti lì, ma quando si hanno 19 anni non è importante il luogo d’origine per capirsi. Ero quindi finalmente integrata in una realtà francese, ma non al cento per cento.

La norma sociale che porta gli stranieri all’estero a riunirsi mi stava colpendo nel gruppo di genitori degli amici dei bambini. Una donna albanese sui quarant’anni, che, guarda caso, parlava un po’ di italiano, era l’unica madre con cui mi sia davvero sentita a mio agio, con la quale ero felice di chiacchierare mentre i bambini giocavano insieme. A volte è bello, dopo tanto tempo che non succede, poter parlare la propria lingua madre.

Il vivere con una famiglia locale, fa sì che ci si immerga totalmente nella realtà del posto imparando la lingua. È un ottimo metodo per approcciarsi, soprattutto grazie ai bambini, che parlano in modo più semplice degli adulti: sono più facili da comprendere e aiutano a imparare nuovi vocaboli; se si ha la pazienza di accettarli come insegnanti.

Mi ricordo in maniera distinta il momento in cui ho imparato che “sasso” si dice caillou che suona un po’ come “caiù”. Era uno dei primi giorni, io e la figlia minore, di due anni e mezzo, stavamo camminando sul marciapiede vicino alle rotaie. Lei si è accucciata e ha cominciato a indicare dei piccoli sassi pronunciando quella parola. Essendo piccola e quindi abituata alla gente che non la capiva e io caparbia, abbiamo discusso un buon quarto d’ora. Io mi impuntavo sul fatto che quella fosse una roche, roccia, mentre lei si impuntava su caillou. Alla fine, raccolta un po’ di umiltà, ho deciso di ascoltarla e “imparare a imparare” parole nuove.

L’esperienza non si limita quindi a un bagaglio di cultura ampliato, ma comprende anche un percorso di crescita autentico, grazie al rapporto ravvicinato che si arriva a intrecciare con le persone.


Fonti

Crediti

Copertina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.