Di Andrea Ancarani
Lo scorso settembre il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, aveva affermato come la ripresa in Italia fosse già un fatto concreto e affermato: “lo confermano i dati” si disse.
In effetti nelle ultime settimane i dati Istat e OCSE sembrano testimoniare un concretizzarsi delle prospettive di miglioramento riguardo all’economia italiana aspettandosi un 2016 con Pil in salita dell’1,5%, una disoccupazione in calo e infine il ritorno della tanto agognata inflazione. Al giorno d’oggi i motivi per non essere pessimisti, secondo molti, ci sono: il Pil nell’ultimo periodo dell’anno ha segnato un timido +0,5% e la disoccupazione è calata al 11,5% rispetto al 12% di giugno 2015.
Tuttavia, nonostante il clima di diffusa fiducia che il Presidente del Consiglio ha espresso nella conferenza di fine anno, le aspettative di crescita sono basate su informazioni parziali e legate alla speranza di un prolungamento delle condizioni economiche internazionali attuali estremamente favorevoli più che su una solida ripresa. Infatti, proiettando le stime di crescita, ci vorranno ancora 6-7 anni per tornare ai livelli di Pil raggiunti prima della crisi del 2008 e ne occorreranno 8-10 per tornare ai livelli di investimento pre-crisi. In particolare modo l’Italia ha recuperato solo il 3% della produzione industriale rispetto al 27,8% della Germania, l’8% della Francia, il 5,4% della Gran Bretagna e, guardando la disoccupazione, il nostro paese ha recuperato solo 1,6 punti rispetto al periodo pre-crisi contro i 4,7 punti della Spagna.
Sono poi molte le questioni rimaste aperte sul tavolo dell’economia nazionale e internazionale, a partire dalle tensioni geopolitiche, la volatilità dei mercati finanziari, una bassa o negativa inflazione, e, pensando all’attualità, un calo di fiducia verso gli istituti di credito. Quest’ultimo elemento inoltre sta minando alla base la struttura stessa del sistema economico europeo mettendo a rischio la sicurezza del risparmio e la possibilità dell’investimento.
Inoltre, se fino a poco tempo fa potevamo contare sulle esportazioni verso la Cina oggi, dato il rallentamento dell’economia, il mercato cinese è sempre un porto meno sicuro per le merci e aziende italiane e se il calo vertiginoso delle materie prime come il petrolio assicura alle aziende del nostro paese un vantaggio di competitività, l’euro rimane ancora una moneta troppo forte per la nostra economia rendendo così nullo il calo delle principali commodity.
Insomma, è vero che davanti al dato della crescita è tornato il segno positivo ma questa è ancora troppo lenta per essere ricondotta ad un’effettiva inversione della congiuntura e segnare così un percorso di uscita dalla crisi solido e strutturale, ovvero fino a quando non si concretizzerà in una diminuzione della disoccupazione e una ripresa dei consumi. Fenomeni, questi, che non si verificano in uno o due mesi, ma che segnano una via ancora lunga e in salita per la ripresa italiana.
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