Dante

Dante e la sua poesia “dell’intelligenza”

Il canto XXVI dell’Inferno figura a Dante il “folle volo” di Ulisse, affinchè egli sia spinto ad un volo saggio, ponderato, sotto il lume divino.

“O frati”, dissi, “che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperïenza,

di retro al sol , del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza“.

Li miei compagni fec’ io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

de’ remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

[…]

ché de la nova terra un turbo nacque

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;

a la quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù,com’ altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».

 

Getto definisce la poesia di Dante “poesia dell’intelligenza” come “poesia in sostanza che si nutre di quei sentimenti che intorno alla esperienza intellettuale, appassionatamente realizzata, si generano e vivono”. La parola, il concetto intelligenza in Dante è quindi una medaglia a doppia faccia, la faccia buona, che si realizzerà nel Dante asceso al Paradiso, e la faccia cattiva, quella di Ulisse e i suoi compagni.

Dante
Dante e il suo poema, affresco di Domenico di Michelino

L’intelligenza è comunque ciò che per Dante distingue l’uomo, la sua “semenza”. Le parole di Ulisse sono infatti le parole di Dante “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, e proprio questa identità di pensieri deve tenere in guardia il poeta dal non intraprendere un folle volo, ma da accettare che l’unica via per giungere al divino sia quella del “transumanare”. L’intelligenza quindi non è più solamente la naturale spinta alla conoscenza, ma nel suo aspetto più profondo e fondamentale è la capacità di accettare i limiti umani, i limiti dell’intelligenza umana, per affidarsi a quella divina.

Nell’ultimo canto del Paradiso Dante scrive:

non eran da ciò le proprie penne

se non che la mia mente fu percossa

da un fulgore in che sua voglia venne.

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ’l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle

É cosciente dell’insufficenza delle sue “penne”, cioè del suo intelletto, e infatti non è grazie a questo che può soddisfare il suo desiderio, ma grazie ad “un fulgore”, un’indefinita luce potentissima che rappresenta l’inconoscibilità e il mistero divino, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

 

CREDITS

Copertina

Dante 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.