di Denise Lo Coco
22 dicembre 2015, ore 19.40.
Siamo un po’ in ritardo: io e il mio ragazzo dobbiamo riuscire a essere in piazza Duomo per le 20.15, dove un gruppo di persone porterà cibo e coperte da distribuire ai clochard delle strade milanesi. Ho saputo io dell’iniziativa per caso, da un link in una pagina Facebook: ho trovato l’evento correlato (Natale Solidale – Senzatetto Milano) e ho deciso subito di andarci. Il mio ragazzo ha aderito non appena gliene ho parlato: lui è decisamente più filantropo di me.
Abbiamo una larga trapunta blu e una borsa della spesa dal contenuto vario: vestiti, pacchi di spaghetti, una scatola di mais, quattro sacchetti di legumi secchi, due lattine di fagioli e un pacco di biscotti. La pasta non sarà molto utile ai clochard, ma speriamo di trovare qualcuno in contatto con la Caritas che possa farne un buon uso.
Partiamo da Buccinasco. Guido più veloce che posso, ma cercando di essere abbastanza prudente. Ovviamente, il traffico comincia a bloccarsi all’altezza di via Valenza e perdiamo almeno più di 5 minuti solo per percorrere il tratto di strada fino all’inizio di corso Genova.
Sono più nervosa del solito: un vecchietto si infila in un parcheggio che avevo già adocchiato a distanza e sembrano non esserci altri posti. Il mio ragazzo, come sempre, lascia che io sfoghi liberamente la tipica ira dell’automobilista milanese. A un certo punto mi dice di calmarmi e che sicuramente, se proviamo a cercare un po’ più avanti, un posto per parcheggiare lo troveremo.
Ottimismo da forestiero.
Ma ha ragione: riesco finalmente a posteggiare appena dopo piazza Resistenza Partigiana. Prendiamo il grande sacco con la trapunta e la borsa della spesa e ci incamminiamo verso piazza Duomo. Percorriamo tutta via Torino cercando di reggere il peso del carico e di tenerci per mano.
Arriviamo sotto l’albero alle 20.30. I coordinatori dell’iniziativa hanno già diviso i presenti in gruppi, perciò ci uniamo al primo che vediamo partire. Non abbiamo nemmeno il tempo di presentarci: ci dirigiamo subito verso piazza Diaz. Percorriamo diverse vie, arrancando tutti sotto i propri carichi; un signore spinge addirittura un carrello, pieno di confezioni di acqua, latte e merendine. Alcuni scherzano su ciò, dicendo che dopo questa gran sudata almeno avremo acqua per tutti.
Percorriamo diverse vie e più volte, ma non troviamo senzatetto. Sono le 21.00, ci diciamo che forse è un po’ troppo presto per trovare qualcuno per strada. Sbuchiamo in via Torino, pur sapendo che era la tappa di un altro gruppo: troviamo un uomo seduto per terra che chiede l’elemosina con un cartello. C’è già del cibo accanto a lui – è già passato un altro gruppo – , ma gli chiediamo comunque se ha bisogno di qualcos’altro. Lui dice di sì, ma indica con un dito il cartello e lancia sguardi bramosi ad ognuno di noi. È chiaro che spera che qualcuno gli dia dei soldi, ma gli facciamo subito capire che può avere solo cibo e coperte. L’uomo ci guarda un po’ deluso, ma acconsente, aggiungendo con poche parole in un cattivo italiano di avere famiglia a casa. Riesco a lasciargli i vestiti e un pacco di spaghetti e ognuno dà un po’ di quello che ha portato.
Ci rimettiamo in cammino, tornando verso piazza Diaz. Non ci sono clochard né elemosinanti. Scendiamo persino in una fermata della metro, sapendo che spesso molti chiedono spiccioli lì, ma anche questa ricerca è a vuoto.
Torniamo indietro per la stessa strada. Poi passiamo davanti ad una grande chiesa e io e il mio ragazzo pensiamo al fatto che spesso i clochard passano la notte vicino alle chiese o sotto i portici dei palazzi. Una ragazza, Sonia, ha portato tre grosse valigie colme di asciugamani; ne lasciamo una davanti alla chiesa con un cartello. Lasciamo anche un po’ di cibo e la trapunta che ha portato il mio ragazzo.
Ritorniamo in via Torino e rifacciamo la stessa cosa davanti alla chiesetta appena prima del negozio Pull&Bear: un’altra valigia colma con un cartello. Facciamo l’ennesimo giro verso piazza Diaz, sperando di trovare qualche bisognoso. Anche questa volta le nostre speranze sono vane, ma passando sotto i portici di un ufficio notiamo un sacchetto di carta e una bottiglietta d’acqua stipati in un angolo tra due muri. Ipotizziamo che qualcuno possa venire a ripararsi qui per la notte, quindi riempiamo l’ultima valigia rimasta e scriviamo un altro cartello.
Ormai non crediamo più di trovare qualche clochard: forse è troppo presto, forse non fa abbastanza freddo e sono ancora in giro. Torniamo verso piazza Duomo, ma poco prima di giungervi notiamo un ragazzo fermo sotto un portico, in piedi. Dall’apparenza deve essere africano, forse del nord. Lui ci ha visto ma ha distolto subito lo sguardo, come per non attirare l’attenzione. Avendo ancora molte cose con noi, proviamo a chiedergli se ha bisogno di qualcosa. Lui fa un sorriso gentile e tenta di rifiutare, per dignità o per orgoglio o per entrambe le cose. Poi dice “Dai, qualcosa da mangiare sì” e accetta dei tramezzini confezionati e il pacco di biscotti che mi è rimasto.
Ore 21.45, piazza Duomo. La nostra borsa ora contiene solo confezioni di pasta, perciò io e il mio ragazzo fermiamo due ragazze vicino al gruppo e chiediamo se qualcuna di loro è in contatto con la Caritas o se conoscono qualcuno che lo sia. Una delle due ci risponde che lei porta, a volte, delle provviste lì e quindi le lasciamo la pasta che ci resta. Salutiamo gli altri e ci avviamo verso la Galleria Vittorio Emanuele.
Camminiamo tenendoci per mano e parlando di quello che abbiamo appena fatto. Non ci sentiamo né eroi né inutili: semplicemente leggeri. Ci accorgiamo che non sentiamo chissà quale profondo orgoglio né ci riteniamo persone migliori; ci rendiamo conto di sentirci come ci sentiamo tutti i giorni quando buttiamo un fazzoletto nel cestino e non per terra. Ci sentiamo come quando ci alziamo dal nostro posto in metro per far sedere un anziano o una donna incinta.
Capiamo che non abbiamo fatto nulla di straordinario, ma che dovrebbe essere qualcosa di ordinario. Non ci è costato nulla: potremmo farlo tutti i giorni. La sensazione è quella di aver commesso qualcosa di estremamente semplice, ma profondamente utile. Qualcosa che dovrebbe essere fatto automaticamente, senza progettarlo e non necessariamente in momenti particolari dell’anno. Sempre.
Perché chiamare “solidarietà” quella che non è altro che civiltà? Perché ci viene spontaneo buttare il mozzicone della sigaretta nel portacenere e non offrire una focaccia a chi mostra cartelli con su scritto “HO FAME”?
Perché notiamo quei cartelli solo a Natale?
Cosa siamo ogni giorno? Civili o solidali?
Credit image: Natale Solidale – Senzatetto Milano