Lo scorso 30 novembre Francesco Guccini ha incontrato il pubblico alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, a Milano, per parlare dell’uscita del cofanetto “Se io avessi previsto tutto questo- Gli amici, la strada, le canzoni” (Universal- versione Deluxe o Super Deluxe) e del suo nuovo libro “Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto” (Mondadori).
L’incontro è alle ore 18.30; arrivo con un’ora d’anticipo e la libreria è già piena, ma riesco ad aggiudicarmi un posto sull’estrema destra, di fronte al bar.
L’attesa è alleggerita dall’ascolto dei suoi grandi classici, che la gente comincia a cantare prima timidamente, poi con sempre maggior convinzione. Passano “La locomotiva”, “Eskimo”, “Incontro”, “L’avvelenata”:
“Se son d’umore nero allora scrivo
frugando dentro alle nostre miserie.
Di solito ho da far cose più serie
costruir su macerie
o mantenermi vivo”
Dalla mia postazione vedo una sola delle due sedie destinate rispettivamente al giornalista Antonio D’Orrico e a Guccini: neanche a dirlo, al suo arrivo Guccini sceglie di sedersi nel posto per me oscurato da una notevole massa di persone, nonchè da un muro.
Guccini, si sa, è un ottimo intrattenitore: racconta di sé e degli altri con naturalezza e schiettezza, e fa dell’ironia uno dei suoi punti di forza. Inizia subito a scherzare a proposito delle edizioni del cofanetto: “Poi c’è anche l’edizione super super deluxe placcata d’oro, fatta da artigiani fiorentini: una copia l’abbiamo data al Papa, una a Obama…”
D’Orrico sottolinea il fatto che la scrittura è un aspetto dell’opera gucciniana non successivo alla produzione musicale, ma che risale al 1989 con la pubblicazione del romanzo “Cròniche epafàniche”.
In effetti, anche come scrittore Guccini è stato molto apprezzato dalla critica: Enzo Siciliano, che curò per la Mondadori l’antologia “Racconti italiani del 900” inserì, oltre agli scrittori canonizzati, anche alcune sorprese, come il bellissimo racconto di Guccini “La cena”.
Siciliano nota che il suo non è un raccontare lirico come quello classico dei cantanti, ma che “scrive con un estro terragno”, si tratta di “un raccontare quasi a bocca piena di buon formaggio e di ancora più buone fettuccine e arrosti e salsicce”. Ancora: “Guccini è un contadino becero dell’Appennino tosco-emiliano che sa raccontare come quei contadini non si siano scrollati di dosso i costumi dei loro bisnonni“.
La conversazione prosegue parlando di Pàvana e di come incredibilmente sia diventata famosa, grazie al cantautore, quella piccola frazione di montagna di Sambuca Pistoiese dove ha trascorso i primi cinque anni della sua vita e dove si è ormai ristabilito da tempo.
“È bella, non è che ci sia una gran movida, anche se una volta riuscivo a far nottata anche in un bar lì… Molti lo chiamano “buen retiro”, ma non lo è affatto: io pensavo che tutti si fossero ormai dimenticati di me, invece continuano ad arrivare persone. Per esempio l’altra volta sono arrivati dei ragazzini della scuola media di Pàvana a farmi domande sull’alcolismo giovanile, come se la cosa mi riguardasse in qualche modo. Perché ridete? Devo precisare che io non sono alcolista, certo ogni tanto mi piace bere qualcosa. E quella del fiasco sul palcoscenico è una leggenda metropolitana (“Ohhh” dal pubblico): la bottiglia sì, ma il fiasco no, io bevevo a canna e quindi tirar su un fiasco è complicatissimo.
Ma mai più di mezza bottiglia, davvero, perché sul palco bisogna stare molto attenti, bisogna essere lucidi, cogliere delle sfumature, quello che sente la gente. D’altronde, aiuta a schiarire la gola!
Comunque, stavo dicendo che viene tanta gente. Sono anni che non compro né vino né olio. Una volta due sono arrivati da Genova con un vassoio di focaccia, altri dalla Sicilia col panettone”
A questo punto il discorso si sposta sul libro “Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto”. Antonio D’Orrico porta l’attenzione sull’interesse linguistico proprio delle opere di Guccini: “Come dai Dizionari delle cose perdute, emerge la tua esigenza di nominare le cose per far sì che non vengano dimenticate, salvarle. Giochi molto con la lingua, con i gerghi. Ad esempio nel primo racconto ‘Il matrimonio’ scrivi: ‘Avevo scatolato a morte mia prozia per avere un regalo da portare’. Con ‘scatolare’ intendi rompere le scatole?”
“Sì penso sia un mio neologismo, intendo rottura di scatole. C’è certamente un lavoro linguistico, ogni tanto uso qualche termine pavanese, ad esempio dico ‘chiappare’, non prendere, e a volte uso vocaboli para-italiani. Però nei miei romanzi uso più l’italiano parlato in quella zona che il dialetto.
Che vergogna – continua, riferendosi alla citazione del giornalista – in quell’occasione avevo dieci anni e dovevo andare a una festa molto popolare; non volevo assolutamente presentarmi a mani vuote, allora mia zia mi ha dato uno spazzolino da denti, ancora nella confezione, e un barattolino di polvere dentifricia, roba lasciata dagli americani. Quindi mi son presentato lì alla festa e han detto ‘grazie, grazie!’. Non l’avranno mai usato naturalmente, allora non si usavano molto a dir la verità…
La cosa che però mi è venuta in mente, nello scrivere questo racconto, è che tutti, sposo, sposa, suonatori di fisarmonica, quelli che ballavano e cantavano, son morti.
Gli unici ancora vivi sono fra i ragazzini all’uscita della chiesa che aspettavano i confetti. Ma questa gente, che ho conosciuto in un’epoca per me felice, completamente diversa dal mondo di adesso, ha avuto per me una sua importanza.”
Bellissima anche la storia di Miss Garofano, uno degli spunti del racconto “Il funerale”, che riporta lo svolgimento di un tipico funerale pavanese e il modo in cui chi l’ha conosciuto ricorda il defunto Gigi De L’Orbo.
“Negli anni ’50, quando c’era la casa del popolo a Pàvana, avevano fatto una sala da ballo. C’era il ballo e gli organizzatori vendevano dei mazzi di garofani. Se a uno piaceva una fanciulla, poteva comprarle un mazzo. A fine serata, la ragazza che aveva più mazzi di garofani veniva eletta Miss Garofano. Soltanto che, forse non avendone comprati abbastanza, nel corso della serata cominciavano a dare mazzi sempre più piccoli.
Una sera c’era un gruppo di toscani. Erano bellissimi i toscani: pieni di colore, cravatte rosse, scarpe bicolori, un’eleganza forsennata.
E si arrabbiarono perché gli avevano venduto mazzi di garofani più piccoli. Si agitarono, volevano fare a botte, poi Gigi de L’Orbo nella confusione scardinò la porta del bagno e li scacciò a portate”.
La presentazione giunge al termine, e alla richiesta di un giudizio complessivo sulla sua opera musicale riunita nel cofanetto, Guccini risponde così:
“Ma sì, li ho ascoltati e tutto sommato sono soddisfatto, ho fatto delle canzoni che vogliono dire qualcosa. Oggi ci sono un sacco di canzoni inutili, poi sempre canzoni d’amore, ma basta! Che scatole. Anche io canzoni d’amore ne ho scritte, ma la mia intenzione era fin dall’inizio di dire qualcosa.
Ecco, a dir la verità ‘L’Osteria dei poeti’ è una canzone commercialissima: io mi ero innamorato di una ragazza, una mia compagna di studi. A un certo punto lei mi dice per telefono che la nostra storia non può funzionare e io le chiedo di darmi un’ultima possibilità e di salutarci almeno un’ultima volta all’Osteria dei poeti. Lei accetta e mi dà appuntamento per le quattro. Io nel frattempo ho scritto questa canzone e una volta lì gliel’ho fatta sentire. E lei, in lacrime: ‘Non potrò mai lasciarti’. Poi mi ha lasciato di nuovo, ma ho guadagnato tempo”.
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