Di Ivan Ferrari
C’era l’aria del mattino
e disegnavo sogni
nella luce e nel vento.
Credevo avessero carne magica
e la tua carne leggera.
Ricordi quanti nomi di nessuno
abbiamo imparato per sempre?
Poi ci hanno gettato addosso
risme di strade accartocciate
sotto volte di ferro e portici d’ebano.
Se vedessimo la vanità dei giorni,
spegneremmo il Sole prima del mezzodì.
Dio guidava una Citroën DS21
seconda serie, azzurra.
Noi eravamo rostri di gomma nera
uniti da un abbraccio cromato.
Sono sicuro di averti abbracciata,
una o due volte.
Nell’abbraccio degli amanti può capitare
che il sonno perda il sembiante della morte
e che tra i corpi non rimanga più di un unico
nervo di terrore.
Ho abbandonato i nostri scogli a Imperia
e ora sono l’orlo di una noce che ti donai
perché di metà ne facessi una barchetta.
Sapevo che, mentre nessuno guardava,
in quel guscio ci versavi tutto il mare.
Ora le poche briciole rimaste
tra i recessi bruni del suo endocarpo
nutrono tutte le piccole vite di laggiù.
Proprio come nutrivano di fantasie
le piccole vite che avevamo affiancato
in quel noi primaverile.
Se regalerai qualche conchiglia
di quelle che raccogliemmo allora
alla strada che mi resta da fare
prima di trovarci di nuovo insieme,
mi sarà più lieve il raggiungerti.
Aspettami ancora un momento,
là dove tutto sarà nostro,
là dove ricorderò il tuo nome.
Sulla tua pelle avrai sapore di pioggia,
avrai profumo di resina,
infine la mia.