L’economia del terrore

Di Andrea Ancarani

L’ISIS è un’organizzazione terroristica che dall’estate del 2014, ha proclamato la nascita del “califfato” con una forte componente territoriale controllando un’area lunga circa 900 chilometri, che va dalla Siria settentrionale a Baghdad e imponendo le proprie leggi su una popolazione di circa 8 milioni di abitanti.

La cosa interessante è notare come il Califfato, a differenza di qualunque organizzazione terroristica precedente, si caratterizzi per un proprio territorio accumunato da una religione e da un’economia e per come cerchi di comporre questi elementi in un’entità politica vera e propria. Lo Stato Islamico sa bene che nessuno stato potrebbe reggersi su solo uno dei tre fattori su citati ed è per questo che dalla sua fondazione cerca di espandersi nei territori limitrofi alla propria capitale, Raqqa, sfruttando la forte instabilità geopolitica tra la Siria e l’Iraq, di diffondervi quindi la propria lettura intransigente del Corano e di costruirvisi una solida economia. L’ISIS inoltre accompagna ogni propria azione con un’intensa attività propagandistica dai social, ai video su internet fino ad arrivare alla fondazione di una propria rivista, “Daqib”, e di un proprio canale televisivo “Khilafa”.

Tutto l’apparato mediatico, politico e soprattutto militare che l’ISIS ha messo in piedi in questi anni si basa su un’economia solida e redditizia.

Ma come lo Stato Islamico finanzia la propria campagna di terrore e intransigenza?

Un servizio interessante pubblicato dalla rivista “The Economist”[1] rileva come il Califfato abbia instaurato un sistema di dura ma ordinata tassazione e estorsione ai danni dei contadini, imprenditori e a minoranze di altre religioni nei territori da esso controllati applicando un’efferata politica di terrore volta a scongiurare qualunque protesta e votata a imporre un’amministrazione capillare e scrupolosa del territorio.

Secondo la rivista americana “The Atlantic”[2], inoltre, i prezzi dei servizi fondamentali come acqua e elettricità sarebbero insostenibili creando grande malessere tra la popolazione, sofferenza a cui si aggiunge il dramma di una disoccupazione di massa. Inoltre i mercati, i prezzi e gli scambi commerciali vengono tenuti sotto stretto controllo dei Jiahdisti in un sistema di rigoroso ordine e controllo.

Tuttavia la maggior parte dei finanziamenti dello Stato Islamico provengono dallo sfruttamento dei pozzi petroliferi nei territori da questo controllati che, secondo alcune stime riuscirebbero a produrre tra i 30.000 e i 70.000 barili de petrolio al giorno. Il greggio, pur non essendo di ottima qualità, viene venduto a 26-35 dollari al barile a trader e uomini d’affari di paesi limitrofi come, Iraq, Libano, fino alla Turchia, Kurdistan e Iran per essere venduti sottocosto rispetto al prezzo di mercato. A queste attività bisogna inoltre aggiungere i proventi dai rapimenti e finanziamenti ottenuti dall’estero.

L’economia dell’ISIS, che alcuni stimano produca un giro d’affari per mezzo miliardo di dollari l’anno, viene gestita quasi totalmente all’interno del proprio territorio risultando indipendente quindi dalle donazioni di facoltosi sunniti con simpatie estremiste, quali esponenti sauditi, e dalle volatili entrate di azioni apertamente criminali quali i riscatti per gli ostaggi che caratterizzavano, al contrario, organizzazioni come “Al Qaeda”. Quest’ultimo fattore, secondo alcuni analisti costituisce la base della forza dello Stato Islamico poiché un’economia mista e indipendente è più difficile da indebolire. Tuttavia tesi contrarie affermano che proprio il dominio predatorio e di sfruttamento delle risorse del territorio da parte del Califfato porterà in un medio-lungo periodo ad un loro esaurimento provocando un’implosione dall’interno dell’apparato politico e militare dello Stato Islamico.


 

[1] “The Economist”, 21/3/2015

[2] “The Atlantic”, 2/9/2015

Images: copertina

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