di Italo Angelo Petrone
Chi è il ribelle oggi? Una domanda a cui molti cercano di rispondere con un modello, cercando di escogitare quell’esempio di condotta umana che possa configurarsi come tale, eppure il quesito è sempre, in costante tribolazione.
Terminati gli anni della lotta studentesca, del fatidico sessantotto, delle sinistre di lotta, degli anarchici, di tutti coloro che nel dopo guerra riuscirono a dare una forma alla loro avversione a quel che il mondo moderno stava diventando, il quesito resta più attuale che mai.
La contemporaneità obbliga sempre di più a microcompromessi che rendono l’immagine di ogni ribelle quella di un semplice oppositore, ben lontano da quel che è il concetto di ribelle autentico. Più che onesta è allora la domanda che cerca una definizione, per quanto possibile oggettiva, del concetto stesso. Il feticismo dello spettacolo è ormai riuscito in maniera totalitaria ad riprodurre ogni bisogno immaginario di cui l’uomo abbia bisogno, tra cui anche il bisogno di ribellarsi, insito alla natura umana.
Una interpretazione interessante ci è data da Massimo Fini, mente da sempre amica ad una verità poco compromissoria, poco condivisa.
“Il Ribelle sa di essere destinato alla sconfitta. Per questo ci affascina. Ma non tutto è positivo, romantico e disinteressato in questo tipo di personalità. Il Ribelle ama la sconfitta perché non vuole assumersi la responsabilità della vittoria. Fa quindi tutto per vincere, ma in modo tale da essere sicuro di perdere. E quand’anche, una volta, con uno sforzo titanico e disumano, prevalesse contro tutto e tutti, e anche contro se stesso, dilapiderebbe immediatamente, come fa il vero giocatore, questa sua vittoria.”
Un ribelle che ama la morte, si tira fuori dalla vita e dà tutto per la sua sconfitta vittoriosa. Questo è il ribelle di Fini.
La storia invece di ribelli ne ha visti tanti, in ogni campo in cui l’umano potesse esercitarsi. Le domande più dolenti diventano, così, quelle che chiedono una partecipazione o meno del ribelle a ciò che egli stesso aberra: il costrutto umano, o meglio, la società, le sue forme e i suoi taciti principi. Cosa deve accettare il ribelle? Ha il diritto d’accettare le forme prefissate? La democrazia? Deve evitare la violenza in ogni sua manifestazione?
Ernesto Guevara, icona del ribelle per eccellenza, aveva scelto la lotta armata per affermare i suoi principi socialisti. Fuori da ogni logica democratica, egli aveva trovato in quella forma di opposizione l’unico mezzo possibile per giungere al fine prescritto. E allora personaggi del calibro di Ghandi non sarebbero da considerare ribelli solo in quanto più pacifici, se anche condottieri più severi e lungimiranti? Di certo meno adorati perché avvolti da aloni ben meno romantici di cui l’immagine del ribelle spesso si nutre, a sua insaputa. Eppure anche loro hanno dato molto a quella nobile figura che è il ribelle. Politici che hanno usato strumenti democratici, prendi Kennedy, loro ne son degni di questo titolo? O si dovrebbe essere più emarginati per meritarlo? Un po’ come quegli artisti che utilizzano i mass-media per comunicare il loro messaggio pur essendo contrari ai media nella loro stessa filosofia professata, loro saranno ribelli? Oppure sono veri ribelli quelli che hanno aberrato tutto, rifiutato tutto, accolto la sconfitta interiore ed esteriore pur di salvare il loro spirito? Bukowski, Céline, Kafka e anche i dadaisti come Jacques Rigaut, loro cosa hanno fatto per non meritare tale titolo? Che sia ribelle anche il giudice anti-mafia non v’è dubbio a questo punto. Lo furono i briganti del sud, i socialisti d’inizio novecento, i primissimi fascisti e quanti altri ancora. Socrate si annovera tra i primi grandi ribelli che la nostra storia occidentale debba rimembrare. Colui che morì per rispettare le istituzioni.
Il ribelle è un uomo in rivolta, come nel testo di Camus, egli è uno schiavo da sempre, che però all’improvviso giudica inaccettabile un nuovo comando.
“Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando.”
E allora tra gli artisti chi è il ribelle? Bansky che permette di vendere le sue opere ad una bancarella di New York sfidando la scoperta dell’autenticità? E se andassimo tra i personaggi biblici, lo stesso Gesù è considerato un ribelle da socialisti come George Bernard Shaw. Che lo siano stati i poeti maledetti e anche i primi cristiani. E Sartre che non ritirò il nobel? Fu un nobile gesto isolato o espressione della sua interezza intellettuale? Domande, solo domande. A questo punto lo fu anche D’Annunzio, fu ribelle anche Ezra Pound. E tra gli ultimi in vita lo è di sicuro anche Erri De Luca, a modo suo, del tutto suo. Molto meno di Pasolini, certo, ma che paragone. Tra i tanti, anche Tenco fu ribelle, ma solo dell’intimità.
Il labile confine, la sottile differenza che rende un bastian contrario ribelle è oggi ancor più difficile da individuare e scorrendo negli elenchi che la storia ci offre, le figure papabili, anche se selezionate con criteri severi, resterebbero una molteplicità, un mare. Che dio ce ne scampi dall’esaltare le forme di ribellione apparente che i media tentano di venderci, ma che ci aiuti ad imparare da quelle che cercarono della verità.
Viviamo nell’epoca degli impostori della cultura, dei corruttori dell’immaginario, il titolo di ribelle è violentato spesso, tanto da essere esaltato nella cultura di massa. Una specie di sconfitta della sua immagine.
Se la figura autentica del ribelle non è identificabile con semplicità che allora venga associata ad uno spirito che ogni epoca storica dovrà sopportare. Uno spirito che evidentemente, in ogni momento storico troverà una rappresentazione efficace in forma e sostanza di quello che è l’ovulo d’ogni possibile e necessario cambiamento di cui la libertà dell’uomo necessita affinché possa continuare a regalar bellezza ai nostri occhi.
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