Di Fatima Ismaeil
Tra la polvere degli scaffali della mia camera, alla ricerca disperata di un libretto qualunque da leggere ai nipoti, scovo una foto della mia infanzia; seduta sulle ginocchia della mamma, una giovane mamma sorridente, dovevo avere tre, quattro anni, i ricci arruffati, lo sguardo intelligente e pensieroso, proteso verso un punto non definito del salotto della mia vecchia casa. Quanto tempo, quasi non mi riconosco! I lineamenti, il tipo di espressività, i colori, le pose, sono sorpredentemente gli stessi del mio presente. Eppure, analizzando da cima a fondo questa sottospecie di reperto storico-primitivo, mi pare di immergermi quasi in un’altra vita, a me estranea, lontana, lo spazio nel quale sono nati i miei primi ricordi, il primo approcciarmi alle persone e al mondo, il primo sentire; vengo trascinata in una dimensione altra, propria della Memoria, tonalità pastello attorno a me, atmosfera ovattata, sfuggevole, tutto è impregnato del carattere dell’abissalità.
Lentamente riacquisto immagini e ricordi, quel breve tratto di passato remoto diventa incredibilmente familiare, quasi sento addosso lo sguardo benevolo e premuroso di mia madre, profumo di pulito della mia camicetta bianca, la presenza dei parenti siciliani, venuti a farci visita approfittando delle vacanze estive, mi confonde ed entusiasma insieme, i loro discorsi mi annoiano, mi distraggo, la luminosità delle foglie delle magnolie sempreverdi visibili dalla finestra attira in modo pressoché ipnotico la mia attenzione.
Mi ronza in testa il titolo della monumentale opera maggiore di Marcel Proust, spiegata dalla professoressa di francese del liceo (ecco, del suo ricordo, sinceramente, avrei potuto fare a meno): secondo il celebre scrittore parigino, infatti, i sensi di cui la natura ci ha provvisto, la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto, il gusto, hanno lo strano potere di farci tornare indietro nel tempo, di colpo riviviamo attimi, esperienze, sensazioni, situazioni apparentemente perdute nel nostro subconscio; è tramite il ricordo, quindi, che ci riappropriamo del nostro passato, del nostro tempo, schiacciato e soffocato da strati su strati di vita successivamente vissuta, un’ esistenza che corre veloce slanciandosi furiosamente, con violenza, verso il futuro.
Ci riappropriamo di noi stessi, delle innumerevoli persone che siamo state, che cambiamo, eccome se cambiamo; i fatti e i fattacci, le esperienze più disparate, le presenze come le assenze, ci forgiano, veniamo plasmati dalla vita che passa, mortificati, esaltati, allevati. Ogni giorno appariamo diversi perché diverso è lo scenario che ci si prospetta innanzi e diversa è la modalità di approccio alle cose che il presente pretende efficientemente da noi.
Nostalgica, indugio un’ultima volta sulla foto sberlettata prima di riporla tra i miei vecchi libri del Battello a Vapore (anche lì, quanti ricordi!); dopotutto, mi dico, gli occhi vispi e attenti, affamati di realtà, desiderosi di comprendere, brillano oggi come allora, della stessa luce azzurrina. Sono pur sempre io. Mi riconosco.