di Italo Angelo Petrone
Il porto di Palermo, intorno alle undici di quel giorno, era dominato da un sole alto e robusto. Il mare, piatto come una tavola, luccicava d’attesa. Tra le gazzarre del molo e grosse navi arruginite c’era la Majestic. Regina tradita d’una grande flotta civile. Galleggiava immobile sotto le ali dei gabbiani mentre veniva assalita da cariche di uomini e merci d’ogni sorta di colore e misura. Il porto stanco brulicava di arabi e auto tedesche. Al bar i capitani accarezzavano tazzine di caffè mentre venditori ambulanti si accordavano con prostitute dell’est. Era il meditteraneo.
Il signor Salvatore era appoggiato a una transenna di sicurezza. Osservava con curiosità l’ordinaria confusione del molo. Aveva 68 anni, 5 figli maschi e un passato fallimentare da imprenditore agricolo. Era un siciliano mite dalla mente ingarbugliata. Aveva vissuto fregature e illusioni, ma mai inflitto del male, sempre lontano dal malaffare ma sempre in cerca di casini. Come tutti gli uomini onesti, ma animati. Era stato un certo Mohktar, guardiano del mercato coperto di Ragusa, a convincerlo a fare un viaggio in Tunisia. Dopo la rivoluzione del 2011, gli raccontava, il governo accoglieva tutto e tutti, purchè produttivi per la nazione. Gli aveva parlato di terreni coltivabili e a buon prezzo. Anche di nuovi funzionari democratici disponibili a chiacchierare se ricompensati con somme più che accessibili. Per Salvatore, pieno di debiti lerci e cause di provincia, era un’incredibile possibilità di rinascita. L’ennesima. Forse l’ultima a quell’età. Qualche anno prima ci aveva provato in Albania con un commercio di bestiame, ma se ne tornò senza la sua macchina e con cinquemila euro in meno. Prima ancora in Argentina con gli elettrodomestici. Aveva capito anche lui che era tutta roba da anni Cinquanta. Chissà, pensò, forse aveva ragione suo figlio, il terzo, quello più studioso: “Papà, cercare fortuna in Albania nel Duemila è come andare a giocare a cricket in Molise”. Sorrise. Un leggero timore vitale gli attraversò le costole. Era la riserva d’adrenalina agli sgoccioli.
Mohktar tornava ciondolando dal bar mordendo una sigaretta. “Ehi, Salvatore, guarda, bella donna lei, eheheh. Arrivo!”. Con l’indice ancora verso la ragazza di passaggio, proseguì verso la biglietteria a prendere quanto prenotato. Le sue infradito schioccavano sull’asfalto. Sulla cinquantina, indossava occhiali da sole falsificati, una polo rosa e bermuda a fiori. Intanto l’aria di mare s’era intrisa di sudore acido e spezie in trasporto.
“Italiano amico?” s’era avvicinato uno dei tanti tunisini di ritorno in patria per la pausa estiva. Erano per la maggiorparte braccianti e piccoli artigiani emigrati nella terra meno lontana dalla loro. “Italiano, italiano” rispose Salvatore con la sua solita cordialità siciliana. Tutti i maschi tunisini erano vestiti identici: jeans scuri e t-shirt o camicia a righe scoloriti. Cambiavano solo i colori degli indumenti. Tra loro non parlavano, urlavano sempre, sia in bene che in male. Le donne, tutte sedute nelle macchine con i bambini oppure raggruppate sul molo in visibile isolamento, aspettavano gli uomini con i loro sguardi diffidenti. Uomini agitati e indaffarati a discutere a voce alta di burocrazia con gli addetti della dogana. Sorrisi, occhi pieni di paura, l’ansia di un documento non regolare, abbracci tra chi era uscito dall’ufficio con le carte in regola e poteva partire. Marescialli con Ray-Ban fumavano vicino ai loro gabbiotti dai vetri opachi. Ghignando protetti parlavano di mogli proprie o altrui. Il signor Salvatore al porto di Palermo era stato solo una volta, nel 67’, per ritirare un carico di angurie, poi sempre in campagna. S’era acceso una Ms Gold con il mento alzato. Blaterava chiedendosi dove fosse finito Mohktar. Nel via vai, vedeva una bimba riccioluta urlare: “Papà, portami a casa!”.
Poi il teatro si fermò di colpo. La sirena della nave, per alcuni secondi, aveva paralizzato la banchina, compresi sottoufficali lucenti e prostitute mattiniere. Era la Majestic, chiamava all’imbarco per l’ultima volta. Nessuno sapeva quanto mancasse esattamente, ma da quel momento in poi bisognava sbrigarsi. La folla di tunisini si diresse in massa verso l’ingresso auto della nave. Alcuni vigili fischiando, tentavano inutilmente di ordinare il flusso. Un concerto irregolare di clacson e grida aveva dato il via al viaggio. Salvatore avvertì vita nel coggige, la spina dorsale gli pulsò forte. “Ammunì” si disse. Il viaggio verso Tunisi sarebbe durato circa otto ore.
Intanto era riapparso Mohktar, completamente bagnato e con i biglietti.
“Dai, Salvatore, portiamo auto su nave, poco tempo!”
Gli aveva infilato i fogli fresci e taglienti tra le dita. Con l’altra mano Salvatore cercò in fretta le chiavi della macchina. Poi un abbaglio, un avambraccio caldo e abbronzato e di nuovo la folla. Un furgoncino ostacolò la visuale. “Salvatore, Salvatore, i biglietti! Rubati senza nome!” – “Come senza nome? Senza prenotazione li facisti?” “Salvatore rubati” – “Sì sì, rubati, ladro!” urlava il tunisino che si era avvicinato prima ed era rimasto li per tutto il tempo a dondolare. Salvatore guardò verso i gabiotti più in là. Un giovane poliziotto, venendogli incontro, distese le braccia con sguardo impotente.
Solo qualche anno dopo il signor Salvatore venne a sapere che Mohktar era solito invitare italiani in Tunisia per poi fargli rubare i biglietti al porto. Senza usarli per sé però. Volta per volta dava il permesso di prenderli a qualche giovane coppia squattrinata che si voleva sposare in patria anzicchè in Italia. Lo faceva per il suo popolo, pensò bevendo un bicchiere di vino. Da quel giorno al porto di Palermo, ormai all’età di 70 anni e con 5 figli maschi, il signor Salvatore non ebbe più voglia di cercar fortuna.