A volte bisogna darci taglio. Netto. Drastico.
Un gesto spinto dall’impeto, a volte dalla rabbia, un raptus di follia, altre volte da un impulso irrazionale del proprio istinto.
Recisione, riduzione, diminuzione, interruzione, fine.
Sono le prime definizioni che si associano all’azione o idea di taglio.
… E perché non vederci un inizio?
C’è chi con un taglio ha dato vita a un concetto spaziale: un taglio su tela che ne apre il retro e diventa tridimensionale, un spazio ulteriore da cui scaturiscono nuove fonti di ispirazione, lontane dal consueto, semplicemente con un atto, deciso e distinto, forse tra i più significativi nell’arte del ‘900.
Un taglio come una lunga linea sottile verticale, o tanti, diversi tagli protagonisti della tela, quale sfondo ineludibile di un linguaggio innovatore.
È Lucio Fontana che invoca un cambiamento nell’essenza e nella forma dell’arte, il superamento della pittura, della scultura e della poesia.
A questo concetto spaziale Fontana, poi, affianca la parola attese.
L’artista traduce l’attesa in un gesto, e il quadro non è altro che la traccia lasciata da esso.
Un segno perentorio, “Conta l’idea, basta un taglio”. Un non sense che affascina e allo stesso tempo pone di fronte a un paradosso, un’ironia, una riflessione, un interrogativo.
O forse a niente.
Eppure lui ci vide l’infinito.
Un segno, un azione, un atto, e la percezione dello spazio in una stanza cambia completamente.
È ciò che fa emergere Pierre Labat nella sua opera DUM DUM (Gallery of the School of Fine Arts-Rennes-2008) che, con semplicità estrema, apre un taglio a croce sulla parete di una galleria.
E così facendo segue le orme di Lucio Fontana, rielaborando il suo concetto spaziale su una parete che sembra schiudersi come spinta da una forza interiore, aprendosi su uno spazio misterioso, affascinante, ma anche, e forse soprattutto, sconosciuto e inquietante.
Labat vuole superare il confine di questa superficie alla ricerca di un spazio vuoto, nuovo, un infinito che si nasconde dietro di essa e che, con questa frattura, entra a farne parte.
E poi tagli che si aprono e si stagliano su pareti spoglie, austere.
Tratti di un pensiero architettonico unico e raro che si manifestano attraverso segni asimmetrici, spazi irregolari, volumi deformati e linee rette che svicolano dai classici contenitori dell’architettura ordinaria e ridefiniscono un nuovo stile decostruttivo.
Sono i tagli che percorrono gli edifici di Daniel Libeskind, segni decorativi e allo stesso tempo funzionali che danno continuità tra interno ed esterno.
Da quei tagli, forti fasci di luce penetrano violentemente nell’ambiente, con un effetto dell’illuminazione quasi drammatico; tagli netti che destabilizzano gli animi, disorientano, creano tensione emotiva, ma al tempo stesso la potenza di queste lame di luce diventano metafora dello splendore dell’infinito che entra all’interno di uno spazio umano per trasformarlo in uno spazio sovrumano.
La luce diventa quindi protagonista incontrastata del luogo nonché metafora di salvezza e di speranza, dove il taglio è il mezzo tramite il quale si irradia, diventa energia, spirito, emozione.
C’è inoltre chi concepisce l’architettura non più come progetto mentale e ideologico ma come oggetto o come corpo, da analizzare non attraverso una rigorosa metodologia tradizionale, ma mediante una anatomia fisica elementare. Questo procedere empirico e anatomico è documentabile nel lavoro di Gordon Matta-Clark, noto soprattutto per i suoi building cuts, tagli di facciate, mura e pavimenti di edifici abbandonati dal forte contenuto illecito e transitorio. Questi tagli aprirono una riflessione su un concetto di architettura intesa non più come creazione estetica ma come materia grezza da scolpire, per questo ridefinita ANArchitettura, (neologismo nato dall’associazione dei termini anarchia e architettura), che dà una decisa sterzata all’immagine tradizionale di quest’ultima.
Un taglio verso il cielo, un altro sulla città. Un taglio che fa entrare nell’architettura un gioco di ambiguità tra spazio e materia. Un taglio che rivela il brutale primitivismo dell’architettura stessa.
È sempre attraverso un taglio che l’assoluto spaziale di dentro e fuori, di alto e basso, di contenente e contenuto viene messo in discussione.
Si tratta di un gesto semplice ma poetico e sublime allo stesso tempo.
Un gesto fisico, che sfonda e corre verso una dimensione dinamica, che traghetta oltre, talvolta aprendo nuovi orizzonti.
Un ulteriore che aggiunge senza negare.
Un segno profondo che apre la luce al buio.
Un’azione forte dalla portata straordinaria.
Un taglio, una fine…
Per dare inizio a un nuovo inizio.
Fonti