di Isabella Poretti
La moda è un essere che vive, respira ed è in continua evoluzione: nel corso dei decenni si sono susseguite con ritmo serrato le tendenze più disparate.
Ogni momento storico ha il suo capo d’abbigliamento rappresentativo, il suo stile inconfondibile.
Negli anni ’70, ad esempio, la moda si è fatta portavoce di ideologie, concetti e rivoluzioni. Mai come in questi anni si ebbe una così forte carica di significato nel vestiario. In quegli anni le lotte politiche e le lotte sociali erano protagoniste incontrastate sulla scena italiana: erano i tempi del terrorismo nero e delle brigate rosse, delle femministe e delle minigonne.
I ragazzi di sinistra indossavano l’immancabile eskimo, divenuto simbolo della lotta e della controcultura, le Clark, jeans sdruciti e borse di cuoio. L’eskimo, in particolare, divenne un indumento identitario, ed esternava una precisa appartenenza politica, e che, proprio per il suo essere fondamentalmente economico e pratico, rifiutava il consumismo e il capitale.
Tuttavia molti indossavano questa particolare giacca inconsapevoli della sua valenza ideologica, come sottolinea Guccini:
“Ma l’eskimo era solo un cappotto che costava poco. Non lo presi come divisa, ma perché faceva freddo. Non era politicizzato, non aveva significati ideologici“.
I giovani di destra invece indossavano jeans di marca, Timberland e occhiali da sole RayBan, facendosi riconoscere anch’essi tramite degli indumenti rappresentativi.
Gli anni ’70 sono anche i momenti caldi delle lotte femministe che utilizzarono, più di qualunque altro gruppo dell’epoca, l’abbigliamento come strumento attivo delle loro contestazioni: le ragazze di questo movimento tendevano a vestirsi con gonne lunghe o con vestiti e sciarpe che coprissero il corpo femminile, rendendolo sexy il meno possibile. Iniziavano proprio in quel momento ad andare di moda le minigonne, che in un primo momento vennero accolte dalle femministe come un simbolo di emancipazione ma, successivamente, vennero rivalutate perché rappresentavano la donna come un giocattolo sessuale.
Le femministe, adottando queste regole nell’abbigliamento, volevano abbattere la concezione della donna come oggetto meramente estetico, ed evidenziare la ricchezza spirituale e intellettuale del proprio genere. Gli anni ’70 furono anni di cambiamenti, scontri, lotte, e la moda era divenuta impegnata come non mai.
Oggi cosa rimane di quella concezione di vestiario? Proprio un bel niente. Abbiamo mode che ci corrono davanti vuote, senza significato, a volte addirittura ridicole. Oggi abbiamo gli hipster con le loro inutili barbe lunghe portate con inconsapevole e stupido conformismo, abbiamo ragazze vestite in stile “hippie-chic” che portano corone di fiori nelle loro foto traboccanti di vanità sui social network, sperando di essere considerate “alternative”. Non esistono più vere e proprie identità di vestiario, ma paradossalmente sembriamo tutti più omologati di prima.
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