ATTESA: 2 MINUTI.
La fortuna. Come sempre sono in ritardo. Come sempre, quando devo tornare a casa dei miei genitori la voglia scarseggia, e c’è sempre un contrattempo che ritarda il mio arrivo in stazione.
L’autobus non mentiva e in due minuti arriva. Salgo in mezzo a una folla di persone pigiate l’una contro l’altra: la maledizione della circolare. La cosa più bella di questo bus è che puoi trovarci di tutto: dai perditempo senza un lavoro, all’uomo in giacca e cravatta, all’anziana che torna dalla spesa, alle famiglie con bambini. Sono circa le cinque del pomeriggio, le anziane la spesa l’hanno fatta da un pezzo, qualche bimbo è uscito da poco da scuola e c’è anche qualche studente un po’ più grande che ride e scherza con i compagni. Poi vedo lui: addormentato su un sedile, rannicchiato. Chissà se questo è il posto più caldo in cui ha la possibilità di dormire. Indossa un cappotto liso, sporco e, quando mi avvicino, posso sentire l’odore di stantio che emana. Trovo un posto a sedere proprio di fronte a quest’uomo dalla barba grigia. Sedendomi, urto per sbaglio le sue ginocchia, lui ha un piccolo sobbalzo, apre un occhio e mi guarda in cagnesco. Faccio un gesto con la mano e sussurro uno “Scusi” quasi impercettibile, imbarazzata. L’uomo con la barba grigia si raddrizza sul sedile, apre entrambi gli occhi e fa un cenno con la testa, aprendo la bocca in un piccolo sorriso quasi del tutto sdentato; i pochi denti che ancora si trovano in quella bocca hanno delle disgustose sfumature nere.
Quando l’autobus riparte, il mio sguardo si sposta da quell’uomo trasandato agli edifici che si susseguono lungo la strada: condomini, uffici, negozi. L’idea di tornare a casa nel nulla più totale, in una piccola città sempre uguale, mi stringe lo stomaco. Tornare a casa vuol dire non riuscire a ricacciare indietro gli anni dell’adolescenza e del disagio che quel piccolo posto mi creava: non riesco mai a sfuggire ai ricordi, per quanto lontano io possa andare, loro corrono sempre con me.
Improvvisamente l’autobus inchioda, un piccolo sobbalzo mi spinge di nuovo verso il mio trasandato compagno di viaggio, a cui nuovamente chiedo scusa e che mi rivolge il suo colorato sorriso. L’autobus non riparte. Cerco di allungare il collo, di vedere cosa stia succedendo, ma non riesco a scorgere nulla oltre folla. Un ragazzo, in piedi di fianco a me, rivolge nella mia direzione i suoi occhi azzurro cielo, informandomi: «C’è un incidente, non ci passiamo». Sbuffo, spazientita. Lo ringrazio e guardo l’ora: quella di perdere il treno sta diventando una certezza.
«Vanno di fretta… Vanno di fretta… e poi SBAM!». Questa voce, bassa e roca, giunge dall’uomo di fronte a me. Lo guardo, accenno un sorriso e mi volto dall’altra parte, cercando di accontentarlo con un “Eh, già…”.
«Una volta anche io… Poi…» continua. Lo guardo, indecisa tra il dire qualcosa e ignorarlo. Se c’è una cosa che ho imparato vivendo in questa grande città è l’indifferenza: le persone non si parlano, ognuno è chiuso nel suo piccolo mondo, un piccolo spazio inaccessibile a chi gli sta di fianco. È evidente che l’uomo di fronte a me stia cercando di condividere con me parte del suo spazio, di crearne uno che sia condiviso, di entrambi. Il ragazzo dagli occhi azzurri lo guarda, poi si volta verso di me, con uno sguardo azzurro e compassionevole. Ed è questo che fa scattare qualcosa in me: forse quest’uomo non vuole essere compatito, forse cerca solo qualcuno che lo ascolti, qualcuno che non lo guardi come se fosse pericoloso, qualcuno che riesca a vedere la persona che è, non quella che appare.
«Davvero? Ha sempre vissuto qui?» gli chiedo, lanciando uno sguardo di sfida al giovane; “Non ho bisogno di essere protetta” vorrei dirgli.
«Sì, fin da bambino. Ho sempre abitato nella parte ‘bene’ della città, quella dei ricchi» e da buon italiano accompagna quest’ultima parola con il classico gesto che significa “soldi” e con un velato disprezzo.
«Io vengo invece da una piccola cittadina. Lì nessuno corre mai». Mi stupisco della naturalezza con cui riesco a conversare con quest’uomo, come se lo conoscessi da sempre.
«Si fidi, signorina, crescere in una grande città può essere deleterio. Tutto è in grande, tu ti senti grande, fino a quando non ti accorgi di essere il più piccolo degli omuncoli».
Apro la bocca, vorrei chiedergli come si sia reso conto di questa cosa, quale sia la sua storia. Ma nel momento stesso in cui sto per porgli quella domanda, mi accorgo di quanto sarebbe indiscreta.
«Me lo chieda, su. Non abbia paura. Mi vede? Non sono di certo qualcuno con cui farsi degli scrupoli, no?».
È il suo modo di parlarmi che più mi stupisce: mi dà del Lei, mi chiama signorina; non è il genere di linguaggio che ti aspetteresti da un senzatetto.
«Non vorrei mai farmi gli affari suoi…».
«Io non ho più affari, grazie al cielo. Per tanti, troppi anni, sono stati il mio unico interesse. Incassare, incassare, incassare. Non pensavo ad altro che ad arricchirmi. Non guardavo in faccia a nessuno, non mi interessavo dei miei genitori, di costruire una famiglia che fosse mia. Mi bastava rientrare nel mio lussuoso loft, accendere i mille elettrodomestici che avevo comprato e mi sentivo appagato. Ero Mr. Scrooge, centocinquant’anni dopo. Scrooge contava i soldi che possedeva, io contavo gli oggetti che riuscivo a comprare».
«Non mi sembra così triste come scenario». Forse non avrei dovuto approfittare in questo modo della sua pausa, avrei dovuto considerare il fatto di non avere alcun diritto di giudicare la sua vita, né presente, né passata.
«Oh, no, non era triste per nulla, ha ragione. Avevo tutto quello che volevo, mi divertivo anche. Ogni tanto uscivo, bevevo, portavo a casa qualche ragazza, che il mattino dopo spariva e non rivedevo mai più. Intanto gli anni passavano, ma a me sembrava di aver trovato la formula per l’eterna giovinezza. Vedevo i miei amici sposarsi, avere dei figli e diventare grigi, mentre io continuavo a sentirmi e a sembrare sempre più giovane».
«Non mi parli di amici che crescono. Sto tornando a casa proprio per un matrimonio di un’ex compagna delle superiori: gli altri si sposano, mentre io ancora cerco di capire quale sia la mia strada».
«Ognuno ha i suoi tempi, signorina. Lei mi sembra una di quelle persone che preferisce prima trovare se stessa e solo dopo qualcuno con cui condividere le cose che ha imparato su di sé». Nella partita dei giudizi siamo uno a uno, solo che lui ci ha preso in pieno. Sorrido un po’ imbarazzata, non riuscendo a capire non solo come quest’uomo abbia fatto a entrare nel mio spazio, ma soprattutto come possa vedere così bene dentro di me. «Ho imparato molto osservando le persone, nell’ultimo anno: salgono su questo bus e dalle piccole cose, da alcuni gesti, riesco a capire molti aspetti della loro vita. Il ragazzo qui di fianco, ad esempio» e indica con la testa il giovane dagli occhi azzurri che ha rinunciato a fare l’eroe, per oggi. «Si vede che è un bravo ragazzo, quando ha visto che questo strano uomo ha cominciato ad importunarla, si è subito preoccupato per lei. Un gentiluomo. Ma è anche evidente che sia cresciuto in questa città: ha questa diffidenza innata, che solo chi è nato qui può avere».
«Ho imparato a diffidare degli sconosciuti anche io, vivendo qui. Da dove vengo ci conosciamo tutti, non ho mai avuto paura di nessuno. Qui invece…».
«Non la perda mai, signorina, la fiducia nel prossimo. Che sia un senzatetto che la importuna su un bus con qualche chiacchiera, o un giovane che cerca di difenderla dal niente, non cominci mai ad avere paura degli altri. È il primo passo verso un isolamento da cui difficilmente si può tornare indietro».
«Lei aveva paura degli altri, prima?» Vorrei chiedergli quale sia stato l’avvenimento che ha decretato un ‘prima’ e un ‘dopo’.
«No, una volta ‘gli altri’ me li mangiavo a colazione. Non ho mai avuto paura di nessuno o non sarei mai arrivato al punto in cui ero arrivato. Adesso… beh, ora è diverso. So che la maggior parte delle persone che incontro prova un certo timore: questo vecchio trasandato e puzzolente, nonostante la sua magrezza e la sua scarsa forza, incute timore. La verità è che adesso che non ho più nulla, ho paura delle persone. E infatti me ne giro tutto solo su questo bus, che sembra non voler ripartire» lo dice voltandosi verso la testa dell’autobus, cercando anche lui di scorgere qualche novità, mentre io controllo l’ora, tornando momentaneamente al mondo reale e alla consapevolezza del treno che sto per perdere.
«Se è di fretta signorina le conviene scendere da questo bus e prendere quello che passa nella traversa di questo viale… Dalla valigia immagino sia diretta in stazione».
«Lo sono» e mi è inevitabile lasciar cadere le spalle, sconfortata.
«Un treno che non ha voglia di prendere, deduco» e mi sorride. Rispetto a prima il suo sorriso mi pare più bello, ma è semplicemente più sincero.
«Non molta, in effetti, ma non ho scelta».
«C’è sempre possibilità di scegliere, signorina. Io, ad esempio, ho scelto di non essere più quello che ero una volta. Una mattina mi sono svegliato e ho scelto, ho deciso di lasciare andare tutto ciò che mi apparteneva e di scoprire quello che ero. Ho sempre pensato che un uomo fosse ciò che possedeva, ho fondato la mia vita su questo. Fino a quando non mi sono reso conto che le persone intorno a me non vedevano me, ma solo quello che avevo. Non avevo vicino nessun amico vero, i miei oggetti, le mie ricchezze avevano degli amici e me ne sono reso conto quando ho venduto tutto. Il giorno dopo non c’era più nessuno al mio fianco».
Eccola, la verità che aspettavo dall’inizio di questa conversazione, finalmente siamo arrivati al punto. Guardo l’ora un’ultima volta: il treno è partito. Ma non riesco ad essere dispiaciuta; provo un leggero senso di colpa, questo sì: lo so che i miei mi staranno già aspettando impazienti.
«Allora, signorina, va a prenderlo questo treno, o no?» Mi guarda fisso negli occhi. Ho la sensazione che tutta la mia vita dipenda da questo momento, dalla decisione che sto per prendere, ma che in realtà era dentro di me già da tempo.
«No, posso scegliere. Non prenderò il treno, non tornerò indietro».
«Non so cosa ci sia dietro di lei, sicuramente però quello che ha davanti dipende solo da lei”.
Mi alzo, ringraziando e salutando quell’uomo che in dieci minuti è riuscito a sconvolgere la visione della vita che ci ho messo venticinque anni per costruire.
Scendo dal bus e attraverso la strada, per andare a prendere quello che mi riporta a casa.
ATTESA: 35 MINUTI.
Va bene così, non ho fretta. Mi siedo su una panchina e apro il mio libro. Prima di cominciare a leggere, mando un sms a mia mamma:
“Non arrivo oggi. Scusatemi il poco preavviso, ma ho deciso”.
Ora so di avere tutta la vita davanti: una vita fatta di scelte che solo io posso prendere per me stessa.