Ci sono diversi modi di invecchiare: il primo è quello naturale, che accade a ogni sistema fisico portato naturalmente all’entropia, l’altro è un tipo di invecchiamento più sottile, è un lungo decadimento, non di cellule, ma di pensieri, è la morte dell’anima. Poi ovviamente c’è quell’invecchiamento drastico e drammatico che è sia fisico che mentale, e che non lascia scampo.
Poi ci sono quelle eccezioni che confermano la regola come in “Il curioso caso di Benjamin Button”, film del 2008 tratto dall’omonimo racconto breve di Francis Scott Fitzgerald. Candidato nel 2009 a 13 premi Oscar, di cui ha vinto migliore scenografia, miglior trucco e migliori effetti speciali, il film di David Fincher con Brad Pitt e Cate Blanchett, è la chiara dimostrazione che non sempre il il decadimento fisico del corpo va di pari passo con quello mentale.
Anzi, per Benjamin Button (Brad Pitt) le cose sono andate esattamente al contrario: nato vecchio con la salute di un novantenne e abbandonato sulle scale di un ospizio, ben presto ci si accorge che invece di avvicinarsi sempre più alla morte, Benjamin ringiovanisce. Invece dei genitori, i suoi primi anni sono segnati dall’insegnamento dei suoi compagni di ospizio, ma anche di amici più giovani e a 17 anni fa quello che ogni adolescente vorrebbe fare a quell’età: parte ad esplorare il mondo.
Ma mentre il suo corpo continua a ringiovanire, la sua mente e la sua salute seguono un percorso diverso. Con l’aspetto di un 12enne, infatti, Benjamin è affetto da demenza senile e morirà accudito dalla donna che ha amato con le sembianze di un paffuto neonato.
L’invecchiamento dell’anima e delle idee, invece, è più difficile da scovare: non ci sono rughe, schiene ricurve, o altri segnali ad indicarlo. È un processo diverso che colpisce gli esseri viventi e con loro anche gli oggetti che producono.
Sto pensando agli allarmi che quasi ogni anno annunciano la morte del cinema. Vengono da coloro che il cinema lo creano, e lo vivono tutti i giorni. I registi e gli attori.
“Il cinema sta morendo!”, lo ha detto ormai nel lontano 2000 l’attore francese Alain Delon, in un’intervista a Roma, per la presentazione del restauro del film La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. Disse: “Il cinema di oggi non mi interessa, preferisco rimanere con i miei ricordi e i miei amici, quasi tutti scomparsi, purtroppo. Il cinema sta per morire, a vantaggio della televisione. Il quinto potere, nel terzo millennio, ha occupato tutto. Si fanno solo film per la tv. E sono diversi da quelli per il cinema, realizzati frettolosamente, senza attenzione all’intreccio. Ma anche per il grande schermo si usano soltanto effetti speciali, non ci sono più le storie realiste di un tempo. Ben presto rimarrà solo il cinema americano. Noi spariremo.”
Nel 2009 fu il turno di Nanni Moretti, che, in un’intersta per l’uscita di Habemus papam, parlando dell’allarme per la pesante decurtazione dei fondi pubblici destinati al cinema, disse: “So e capisco tutto. Però c’è anche una responsabilità del pubblico, per il quale il cinema non è più centrale. Tutti stiamo sottovalutando il momento di difficoltà delle sale, che ora chiuderanno una ad una. Perché le persone sono disposte a spendere qualsiasi cifra per mangiare in un ristorante dove devono urlare per farsi sentire. O per una partita che forse finirà zero a zero. Ma il cinema, la cosa che è aumentata di meno negli ultimi quindici anni, quello no: costa troppo. Per non parlare dell’abitudine orrenda di scaricare illegalmente da Internet. E basta con il luogo comune di premettere sempre: “io non do giudizi”. Io sì, li do. Non mi piace quel modo di vivere lì! Non mi piace che uno stia con il culo appiccicato alla sedia e con la sedia appiccicata al computer. Mi piace più il mio, di modo di vivere. E vedere i film in un cinema, in mezzo agli altri. Tra poco i cinema chiuderanno tutti. E non è colpa della politica o delle istituzioni, ma delle persone che hanno la possibilità di scegliere di fare una cosa e un’altra. Anche tra noi, registi o scrittori, c’è chi potrebbe scegliere ma non lo fa. Io, da quando fondai la Sacher con Angelo Barbagallo, ho escluso la possibilità di farmi finanziare i film dal gruppo Berlusconi. Ho cercato di essere coerente. Una cosa imparata da mio padre, che era liberale”.
Nel 2013 riecheggiarono, invece, queste parole: “Il cinema sta morendo, oggi mi annoia. Preferisco le immagini ai testi; la mitologia alla storia”, un’affermazione di Peter Greenaway che era a Lucca per presentare il suo nuovo progetto multimediale “The Towers/Lucca Hubris”.
Solamente lo scorso anno, è stato il turno del maestro Quentin Tarantino, che in uno dei Festival del Cinema più importanti, quello di Cannes, prima della proiezione di Pulp Fiction dichiarò: “cinema is dead”. O meglio il cinema come lo conosceva lui è morto: “The fact that most films now are not presented in 35 mm means that the war is lost. Digital projections, that’s just television in public. And apparently the whole world is OK with television in public, but what I knew as cinema is dead.”
Il cinema sta morendo? O è già morto, dunque? Vi ho mostrato il parere di persone che il cinema lo respirano dalla mattina alla sera. Voi invece, cosa ne pensate? Siete d’accordo?
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